Azione notturna

1944. Ormai era tempo di azione e bisognava tornare in banda. In uno di quei giorni fui avvicinato da un tale che mi chiese se volevo far parte della polizia partigiana. Avrei avuto in consegna uno Sten e per contro partita avrei dovuto uccidere coloro che mi sarebbero stati indicati. Accettai, intanto il mitra me lo davano subito e in quanto all’uccidere, bene, quello si sarebbe visto in seguito. Mi pareva allora di non avere nessuna remora a sparare a una spia o a un delinquente fascista. Condividevo completamente l’ idea che i responsabili dell’uccisione dei miei più cari amici meritassero la morte. Finora però non avevo visto sparare a nessuno. Nella nostra banda GL caso mai preferivano passare i prigionieri ai garibaldini, che pare non avessero troppi scrupoli a farli fuori.
Ricevetti dunque il mio Sten, un residuato al quale mancava il calcio e per poterlo portare a tracolla fui costretto a passare la cinghia nel cavallotto che proteggeva il grilletto. Dalla mamma mi feci cucire in tutta fretta un portacaricatori con la stoffa di un grembiule e io mi sentii pienamente appagato. Non ero ancora salito in montagna quando un pomeriggio venne l’ordine di trovarci tutti a Fontanelle per fare nella notte un grosso colpo ai magazzini militari di Borgo San Dalmazzo. Nelle varie osterie della frazione mi incontrai con elementi di tutte le bande dei dintorni c’erano i Bovesani, Berto Baudino, Teppa, Marchisio (Tulè), Minetto, Foncio e molti altri. Tra i nostri ritrovai Attilio Fontana.

Si trattava di una azione che doveva essere incruenta in quanto i militari di guardia ai magazzini erano d’accordo con noi. Come scese la notte a piccoli gruppi ci avviammo verso Borgo San Dalmazzo, io avevo il compito di condurre una carretto con tanto di cavallo che tenevo per la briglia e che avrebbe dovuto servire per caricare il bottino. Avevamo appena superato il ponte di ferro e imboccato la circonvallazione che porta al sottopasso della ferrovia quando improvvisamente dal paese giunsero ai nostri orecchi i suoni di innumerevoli spari.
Intimorito e sorpreso fermai il cavallo e aspettai di saperne di più. Poco dopo dal buio dei prati che fiancheggiavano la strada venne fuori un gobbetto con una pistola in mano che ci disse: “Non è successo niente, ci siamo trovati davanti una pattuglia di tedeschi che non dovevano esserci, ma che sono arrivati in giornata a Borgo. Li abbiamo neutralizzati, potete proseguire”. Nel silenzio più assoluto, rotto solo dallo sferragliare dei cerchioni di ferro del carro, arrivammo fin sotto il tunnel della ferrovia che allora aveva dei muri paraschegge sia all’entrata sia all’uscita.

Qui giunti, scoppiò l’inferno, raffiche di mitra ininterrotte e deflagrazioni di bombe a mano riempirono l’aria della notte. Ancora una volta ci fermammo nel buio del tunnel. Con me c’era Berto Baudino che mi chiese in prestito lo Sten e si avviò deciso all’uscita. Appena fuori dai paraschegge sparò a caso una raffica col mio mitra e tornò indietro. Pochi minuti dopo il solito messaggero ci disse che la presenza dei tedeschi aveva mandato a monte il colpo. Non potevamo far altro che ritirarci. Girai il cavallo, uscii dal tunnel e percorsi indietro la strada che avevo appena fatto avendo cura di tenermi ben coperto dal muso del cavallo perché in paese la sparatoria continuava senza mollare di intensità. Sembrava di assistere ai fuochi artificiali di una sagra di paese. Con calma riattraversammo il ponte di ferro e Berto, che si era messo il mitra a tracolla, ebbe la sorpresa di sentire una raffica che gli sfiorò le scarpe, quando la cinghia dello Sten agganciò il grilletto. Fin qui eravamo rimasti calmi, ma quando sentimmo gli spari di una mitragliatrice pesante arrivare dalle pendici della collina al di là del ponte, lasciammo che il cavallo e il carro trovassero da soli la via di casa.

Noi ci buttammo nel naviglio che per fortuna era asciutto. Da lì risalimmo il fianco della collina dove incontrammo altri compagni. Venni così a sapere che, sopra di noi di fronte all’imbocco del ponte di ferro, era stata piazzata dai partigiani di Boves, una mitragliatrice pesante col compito di proteggerci le spalle. Vedendo che ci stavamo ritirando, Foncio aveva pensato bene di aprire il fuoco in direzione di quelli che dovevano essere gli alloggiamenti della banda di Salvi (il famigerato tenente della polizia fascista).
Intanto affluivano da Borgo in piccoli gruppi tutti quelli che avevano preso parte all’azione. Ci raggiunse Minetu con la camicia piena di sigari con la paglietta (Minghetti), ci raccontò che lui era già entrato nel magazzino ma che, in seguito alla sparatoria, aveva dovuto scappare, non senza prima aver messo le mani sulle scatole dei sigari. Da come si erano svolte le cose, dal numero di colpi sparati, era logico aspettarsi un conto salato tra morti e feriti.

Ebbene, non si fece male nessuno. Solo Teppa riportò una lieve ferita alla mano procuratagli da una scheggia di vetro. Ritornati a Fontanelle ci contammo con grande apprensione e notammo che mancava Attilio Fontana con i suoi fedelissimi. Ma ecco che sul far del giorno apparve un carretto a mano spinto da alcuni ragazzi, tra loro c’era anche Attilio. Ci raccontarono che durante tutta la sparatoria erano rimasti fermi in un giardino dove pare che Attilio si fosse appisolato.
Quando era tornata la calma si erano procurati un carretto a mano e, come d’accordo col magazziniere, erano entrati nel deposito e avevano fatto un carico di tute blu che servirono poi da divisa della nostra banda nel giorno della liberazione.