Beppe Lerda
Beppe fu il primo compagno di giochi della mia ormai lontana infanzia. Questo fu dovuto al fatto che le nostre abitazioni distavano pochi passi l’una dall’altra e a quei tempi noi ragazzini eravamo molto più liberi di muoverci, che non quelli dei giorni nostri.
Suo papà, Costanzo, era rimasto presto vedovo così che Beppe non conobbe mai la madre naturale. Chi ebbe cura di lui fu la matrigna, che assieme al marito gestiva l’Albergo Superga.
Beppe e io passavamo molto tempo insieme, quasi sempre nel cortile di casa mia; ma ricordo che una volta mia mamma, venuta a cercarmi al Superga, mi sorprese a letto con lui che era ammalato, mentre golosamente condividevo le sue pappette.
I genitori non avevano molto tempo per star dietro al ragazzino, così poteva capitare che lasciassero delle monete sui tavoli della trattoria e Beppe, con l’incoscienza dell’età, se ne appropriava trasformandoli in tavolette di cioccolata che comprava nel vicino negozio di alimentari. Non mancava mai di farmi partecipe del bottino, tanto che presto ci chiamarono “gli amici del Talmone”.
Un giorno che eravamo nel cortile di casa mia, arrivò dalla vicina osteria un gruppo di coscritti di San Giacomo. Erano allegri e cantavano, accompagnati da un clarinetto e una fisarmonica. Sul cappello floscio avevano legata una lunga penna e il foglio che era stato rilasciato loro dal distretto. Scolata l’ultima bottiglia di vino, sempre accompagnati dai musicanti s’incamminarono lungo la strada che li doveva portare alla loro valle.
Quella musica festosa ebbe su me e Beppe lo stesso effetto che doveva aver fatto il suono del pifferaio magico della favola. Li seguimmo su per la contrada e oltrepassando i confini di quello che era il nostro mondo di allora ci trovammo, senza renderci conto, fuori del paese. Eravamo già alla Madonna dei Boschi quando la mia vicina di casa “Lucia” ci raggiunse in bicicletta e ci riconsegnò ai nostri genitori.
In quel tempo la matrigna mise al mondo una bambina, che venne data a balia a una donna di campagna. Dopo poco la piccola morì, probabilmente per un’infezione intestinale, cosa che a quei tempi succedeva spesso: infatti non era raro veder passare per il paese quelle che noi chiamavamo “sepolturine”; poche persone portavano una piccola bara bianca, mentre un prete e le solite orfanelle li accompagnavano al canto di quello che suonava ai miei orecchi “beati immaculati in via…”.
Non passò molto tempo che Costanzo decise di lasciare la gestione dell’albergo Superga, per dedicarsi al commercio della frutta. Per questo si trasferì dall’altra parte del paese, in Corso Trieste, a fianco della villa Pesenti, troppo lontano da casa mia per poter continuare a vedere il mio amico tutte le ore del giorno. Questo non toglie che spesso lo andavo a trovare, per condividere un giornalino o anche solo per avere sue notizie.
Beppe era un solitario, io non ricordo di averlo mai visto giocare al pallone, né alle carte e neppure frequentare quei bar che nel paese erano la nostra seconda casa per molte ore della giornata.
Alle elementari era un anno avanti a me, perciò lo frequentai pochissimo. Poi io andai a studiare a Torino e così lo vidi ancora meno. Pensavo che seguisse le orme del padre e imparasse l’arte del commercio, non sembrava adatto a continuare gli studi, ma mi sbagliavo. Beppe aveva una volontà fuori del comune e colui che da piccolo chiamavamo “testa grossa”, si dimostrò essere una “testa fina”. Si applicò allo studio con una intensità priva di distrazioni e con una costanza che non poteva che provenire da un intenso desiderio di elevarsi e dal piacere di istruirsi, cosa non attribuibile certo a spinte esterne, dal momento che suo papà non aveva troppo tempo da dedicargli.
Purtroppo anche la matrigna “Ciutina” morì giovane. Si era data molto da fare per aiutare il marito nel suo lavoro e la sua perdita fu molto sentita. Il papà di Beppe non era certo un chiacchierone, ma dopo di allora non lo si vide più sorridere e i rapporti con il figlio si fecero ancora più distanti. Non che non lo amasse con tutto il cuore, semplicemente non gli riusciva di comunicare.
Incontrai Beppe a casa sua un pomeriggio dell’autunno 1943, Boves era stata bruciata e io ero appena tornato da Tolone. Mi trovai davanti a un uomo maturo, cosciente delle proprie scelte, deciso a lottare contro i tedeschi convinto che fosse la scelta giusta. Già si capiva che sarebbe stato un trascinatore. Mentre ascoltavo i suoi piani, mi mostrò una vecchia pistola a tamburo di cui era in possesso, una calibro 12, di quelle d’ordinanza nel Corpo dei Carabinieri e mi raccontò cosa era accaduto appena il giorno prima.
Beppe era intento a chiacchierare con Mario Martini, quando entrò un tale di cui mi sfugge il nome, che, visto il revolver, lo aveva preso in mano per esaminarlo con curiosità. Nel maneggiarlo, premette il grilletto proprio quando la canna dell’arma era rivolta verso il corpo di Mario. Beppe, arrabbiatosi, gli disse d’esser più prudente nel giocare con un oggetto così pericoloso, al che il tale rispose che lui conosceva bene la pistola avendola avuta per molto tempo a disposizione quand’era carabiniere. Mario gli disse allora che almeno la indirizzasse lontano da loro, cosa che lui fece premendo di nuovo il grilletto Il colpo stavolta partì con un rumore assordante e il proiettile sfondò il cassetto della credenza alle loro spalle: il buco era ancora lì da vedere.
Passato lo spavento, Mario volle controllare cos’era successo quando era stato premuto il grilletto la prima volta, scoprendo che, per fortuna, il colpo non era partito, pur essendo ben visibile sul bossolo il segno del percussore. Per un vero miracolo il destino non ci aveva privato anzitempo del futuro Presidente della Provincia e storico di Boves!
La storia di Beppe fu per un po’ comune a quella di Erio Baudino, di Mario Martini e di altri ancora: disastro del casotto tra le vigne, congiungimento con la “Banda Vian”, occupazione di Vinadio e combattimento del dicembre, nel quale persero la vita Erio e Fiandrino; ritorno in Bisalta fino al rastrellamento di dicembre, dopo di che non si parlò più di banda ma di gruppetti autonomi.
Molti bovesani presero allora strade diverse, Beppe scelse la più pericolosa e scomoda rifugiandosi con i suoi nel Monregalese. Pino Lazzari, che gli fu compagno per un po’, mi raccontò quanto Beppe fosse coraggioso, dicendomi che stentava a riconoscere nel deciso capo partigiano il giovane studente con il quale aveva condiviso, al Liceo di Cuneo, lo stesso banco, e che durante le interrogazioni si faceva piccolo piccolo per non farsi notare dall’insegnante.
In ogni caso io non lo rividi più e delle sue gesta altri ne parleranno. Voglio qui però ricordare l’ultima avventura, che lo portò a morte prematura assieme a tutti i componenti del suo gruppo. Le testimonianze che qui riporto le ho tratte dai libri di Nuto Revelli il quale, nel descrivere l’attacco tedesco alla Val Maira, marginalmente riferisce che, mentre la propria banda era riuscita a sganciarsi dal combattimento senza perdite, un gruppo di partigiani appena giunto in vallata non trovò la via di fuga perché bloccato da un muraglione di roccia invalicabile.
Era il gruppo di Beppe e Boschiero che, cacciati dai loro rifugi da massicci rastrellamenti nel Monregalese, avevano cercato la salvezza nei pressi di Castelmagno. All’epoca si era parlato di spiate e di tradimento, ma, probabilmente, si trattò del solito “caso”: si erano trovati nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Arrestati dai tedeschi, furono portati al piano e condannati a morte per fucilazione.
Nel «Prete giusto», Revelli riporta la testimonianza di don Viale di Borgo San Dalmazzo, che portò i conforti religiosi ai morituri non senza aver prima cercato in tutti i modi di dissuadere il comandante tedesco dal compiere un gesto così crudele.
Accompagnando i ragazzi sul luogo dell’esecuzione, don Viale racconta che Beppe gli rivolse un’angosciosa domanda: “Padre – disse – le pare giusto che dobbiamo morire così giovani?”.
Il prete cercò, allora, di trovare parole di conforto e portò loro come esempio San Dalmazzo, che era stato anche lui martirizzato con i compagni per non aver voluto rinnegare la Fede, proprio in quella zona.
Furono uccisi al cimitero di Borgo San Dalmazzo, a due a due, mentre ben allineate vicino al luogo dell’esecuzione stavano le bare aperte in attesa dei loro corpi senza vita.
Era il 2 maggio 1944. Beppe aveva vent’anni.