Bombardamenti su Torino

1942. Era la fine dell’anno, fino ad allora era stato quasi un piacere scendere nei rifugi, si socializzava con gli inquilini del palazzo e il giorno dopo si poteva andare in ritardo a scuola. Considerando la vita monotona che conducevo da studente a casa di mia zia Marcella, questi eventi erano accolti come piacevoli diversivi. Una notte che non stavo bene mia zia non mi fece scendere in cantina ma rimase con me febbricitante a farmi compagnia. Fu un esperienza spaventosa: i rumori che facevano i cannoni antiaerei erano inimmaginabili stando nel rifugio. Questo mi fece riflettere su quanto puo essere spaventoso il rumore delle armi. Poi però le cose cambiarono. Il primo bombardamento provocò un notevole numero di vittime, tra cui la famiglia di un nostro conoscente, Giulio Corbelletti.
Quando di giorno andai a vedere i palazzi bombardati, mi resi conto del potere dirompente delle bombe d’aereo. Edifici di quattro o cinque piani parzialmente crollati fin giù nelle cantine.
Spaventate da quanto stava accadendo in città, mia cugina Maria con le due bambine Mariangela e Maria Ludovica, la suocera signora Amalia, decisero di lasciare Torino per recarsi a Mercurago vicino ad Arona, dove possedeva una villetta e dove si sarebbero sentite al sicuro. Per essere più vicine alla stazione di Porta Susa, dalla quale avrebbero dovuto partire il giorno dopo, vennero a dormire da noi che eravamo a pochi passi dalla stazione.
Quella notte successe l’inferno, stavamo dormendo da poco quando il suono delle sirene ci tirò giù dal letto. Nel rifugio l’atmosfera era cambiata, non si era mai vista tanta gente.
Dopo un po’ iniziarono a cadere le bombe. Una doveva essere scoppiata vicino al nostro caseggiato in quanto dal soffitto iniziarono a cadere calcinacci e la luce si spense. Vennero accesi dei lumi di emergenza ma la paura era ormai palpabile, alcune donne iniziarono a recitare il rosario a voce alta ma vennero zittiti da alcuni uomini che urlarono: «Non siamo ancora morti». Finiti gli scoppi anche la contraerea non sparò più. Io iniziai a muovermi da una cantina all’altra per capire cosa era successo.
Due coniugi che abitavano al primo piano si abbracciavano piangendo mentre mormoravano: «Non abbiamo più niente». Qualcuno disse: «La casa è in fiamme».

Mio zio Leone che era capofabbricato con grande coraggio si avviò su per le scale per salire verso la soffitta dove era stata predisposta della sabbia da gettare sugli spezzoni incendiari, secondo le istruzioni emanate a suo tempo dalla protezione antiaerea. Intanto alcune persone temendo per l’incendio incominciarono a lasciare il rifugio per andare a cercare un posto più sicuro. Una nostra vicina, la signora Enrie, che aveva con sé una grossa valigia, mi chiese se potevo aiutarla. Avuto il permesso dalla zia uscii con lei per recarmi nel rifugio di una casa vicina che era stato risparmiato dalle bombe.
Compiuta la missione ritornai di corsa dai miei parenti, ma quando arrivai sotto il portone di casa mi dissero che la cantina era stata fatta sgombrare e che gli occupanti si erano distribuiti nei vari rifugi vicini rimasti agibili. La paura mi era passata ma l’eccitazione era a mille.
Guardavo i tetti in fiamme di molti palazzi di corso San Martino. Per la strada un tram era finito a gambe all’aria. La casa di fronte a noi aveva ricevuto una bomba in pieno che l’aveva sezionata come un disegno.
Le macerie avevano riempito il rifugio e come sapemmo poi, nessuno degli occupanti era riuscito a salvarsi.
Affascinato da quello che vedevo attorno a me camminai a lungo, in Piazza Statuto e lungo via Garibaldi. Lì c’era il collegio che ospitava il mio compaesano Piero Pellegrino e volevo vedere se anche dalle sue parti erano successi disastri. In quella zona tutto era tranquillo, tornai indietro fermandomi ogni pochi minuti a fare pipì. Penso che fosse dovuto al mio stato di nervosismo.
Incominciai a girare per tutte le cantine di corso San Martino alla ricerca dei miei parenti, c’era molta confusione e poca luce, non riuscivo a trovarli.

Le cantine erano superaffollate, le sirene non avevano ancora suonato il cessato allarme. Camminando sotto i portici a un tratto sentii gridare: «Ritornano!». Allora mi affrettai anche io a cercare un rifugio sicuro. Mi infilai nelle cantine di un albergo all’angolo tra via Cernaia e piazza Porta Susa, e qui scoprii che erano scavate su due piani. La parte inferiore detta Infernotto dava l’impressione della massima sicurezza. Mesi dopo da queste cantine furono scavati dei pozzi che raggiunsero delle gallerie risalenti alla Torino di Pietro Micca: erano alte non più di un metro e ottanta e larghe un metro e mezzo circa. Nella loro lunghezza attraversavano tutto il piazzale di fianco alla stazione e andavano a uscire nelle cantine del ristorante che si trovava in fondo a corso San Martino. Illuminate da una serie di lampadina diventarono in seguito per quelli che potevano usufruirne, il rifugio più sicuro della zona.
Finalmente ritrovai i miei parenti in una cantina dove ero stato almeno una volta. Assieme decidemmo di ritornare in casa, l’alloggio era tutto sottosopra, vetri dappertutto, nella sala verso la strada un grande buco nella parete indicava il punto dove una grossa scheggia doveva essere entrata. La zia mi chiese se avevo voglia di andare a vedere cosa era successo in casa della cugina in corso Cairoli, sul Lungopò. Non mi feci pregare, non avrei potuto dormire comunque, ero troppo eccitato.
Mi avviai quindi per corso Cernaia, verso piazza San Carlo. Qui due palazzi, uno di fronte all’altro, bruciavano a partire dai primi piani. Una volta dovetti cambiare strada perché quella che stavo percorrendo era stata chiusa per bomba inesplosa.
Già che c’ero decisi di passare a vedere se era successo qualcosa a zia Nora, che allora abitava in via Lagrange, quasi vicino alla stazione di Porta Nuova. Lì era tutto tranquillo, per cui sempre camminando nella notte mi avviai verso il Pò. Qui non era proprio successo niente, nemmeno uno spezzone incendiario era caduto. Ritornai verso casa passando da via Pò, così potei constatare che anche la mia scuola era stata risparmiata.

Giunsi dai miei che era quasi l’alba. Feci il mio rapporto poi cercai di dormire un po’, ma non era possibile, già erano arrivati i cosiddetti «demolitori» che strappavano le travi semibruciate dal tetto e le buttavano nel cortile. Per tutto la notte mio zio fece il dovere di capofabbricato e quando lo vidi al mattino i suoi capelli normalmente bianchi come la neve, erano diventati neri di fuliggine.
Per poter compiere fino in fondo quello che riteneva essere il proprio dovere, decise di rimanere sul posto, così toccò a me accompagnare la famiglia Del Caldo a Mercurago.
Nei primi mesi del ’43, Torino subì altri bombardamenti e io allora conobbi la vera paura. Quando le sirene mi svegliavano di notte, io tremavo come una foglia. Un po’ per il freddo ma molto di più per il timore di star lì sotto ad aspettare gli eventi, tanto più che ormai molti erano sfollati e le cantine semivuote e silenziose rendevano bene l’atmosfera dell’attesa della morte.
I miei zii scesero nel rifugio durante tutti i bombardamenti di Torino, senza mai abbandonare la casa. Io invece ogni tanto quando le condizioni atmosferiche facevano prevedere una probabile incursione, sull’imbrunire partivo in bicicletta con il mio vicino e andavo a dormire in una casa che i suoi genitori avevano in un paesino della collina torinese, oltre Moncalieri, a Revigliasco.
Alla ripresa delle lezioni, dopo le vacanze di Natale che quell’anno furono particolarmente lunghe, con il permesso dei miei zii presi l’abitudine di recarmi a Boves tutti i fine settimana. L’abbonamento festivo costava poco e avevo così modo di tornare dal paese con un po’ di pane, qualche uovo, quello che la mia cara mamma riusciva a mettere da parte per noi, visto che in città chi non poteva comprare a borsa nera, doveva rassegnarsi a fare la fame con quel poco che la tessera passava.
Qualche volta suonò l’allarme mentre ero in treno, e siccome la stazione ferroviaria era un obiettivo prioritario per gli aerei, finché non raggiungevamo l’aperta campagna, l’angoscia era terribile. Una sera mentre facevo ritorno a Torino, il treno si fermò in aperta campagna perché in città era suonato l’allarme ed era meglio non fare trovare il treno in stazione. Di quella notte ho un ricordo così incerto, che potrei averlo sognato: raggiunsi a piedi un paesino vicino alla ferrovia, e andai a bussare alla casa del parroco che doveva essere un parente del mio amico di Revigliasco. Mi fecero entrare e mi offrirono un letto per passare la notte e ricordo che mi scaldarono le lenzuola con il famoso ‘prete’.
In primavera le scuole chiusero prima del tempo, a causa delle continue incursioni aeree. Tornato a Boves, ogniqualvolta sentivo passare sulle nostre teste gli squadroni delle fortezze volanti, correvo al Castello da dove potevo vedere nella notte verso Torino cadere le bombe. Attorno a me altri spettatori commentavano ad alta voce dopo ogni scoppio. La contraerea riempiva il cielo di chiazze rossastre, mentre i riflettori sciabolavano l’aria, cercando di inquadrare con le loro lame luminose almeno un apparecchio. Lo spettacolo era garantito, ma io tremavo al pensiero di quei poveretti che non avrebbero visto il sorgere dell’alba.