Boves 1940

1940. Non vorrei raccontare i miei ricordi di guerra senza far sapere a quelli che allora non erano ancora nati che tutto non cominciò in modo così drammatico come poi finì. Nel giugno del ’40 Boves era un po’ la retrovia del fronte, ma noi non sentimmo neanche un colpo di cannone. Il paese era pieno di truppe, alcune solo di passaggio. Mi ricordo che papà incontrò tra i soldati dell’autocentro un paesano di Pergola e con lui si fece fotografare sotto il Pellerino di piazza Nuova. Il militare portava la strana bandoliera di traverso che avevano quelli che guidavano gli automezzi. Sentimmo dire che alcuni aerei avevano sganciato alcune bombette su Cuneo, ma che non tutte erano scoppiate e nell’insieme avevano fatto poco danno. Una era caduta in corso Nizza vicino al Sacro Cuore e aveva provocato un principio di incendio e la morte di una gattina.

Era incominciato l’oscuramento, di notte nessuna luce doveva trapelare dalle finestre, le poche macchine giravano con i parafanghi imbiancati ed una mascherina sui fanali e ai vetri ci avevano obbligati ad incollare delle strisce di carta. La guerra «lampo» stava per finire. Le truppe tedesche erano già entrate a Parigi e noi dopo qualche scaramuccia sui monti e la presa tanto propagandata di Mentone, potevamo ormai avanzare verso Tolone senza più incontrare resistenza. Prima che arrivasse in questa città, la flotta francese si era autoaffondata per non cadere nelle mani del nemico. L’unico lutto per il paese fu la morte di Ferruccio Ferrari, un frazionista della Rivoira che io non conoscevo personalmente. Era morto sul forte Chaberton nella val di Susa sopra Ulzio. Questo forte era messo in posizione panoramica bellissima, la montagna strapiombava da ogni suo lato. I proiettili per colpirlo dovevano essere precisissimi perché altrimenti finivano nei valloni. Per arrivarci avevano costruito una strada sul lato al coperto che era una vera opera di ingegneria. I francesi, eccellenti artiglieri fin dai tempi di Napoleone, avevano già tutto precalcolato. Un enorme mortaio montato su rotaie e nascosto in una caverna, veniva fatto uscire ed al terzo colpo aveva centrato in pieno il forte. Il povero Ferruccio fu ferito mortalmente e per questo gli venne concessa la medaglia d’oro al valore militare. Immaginatevi il nostro orgoglio: avere il nome di un bovesano da accumunare ad un Enrico Toti, Cesare Battisti, Tito Minniti. Tutti eroi che la mistica fascista esaltava oltre ogni misura.

Ma non fu la guerra a portare i soldati a Boves. Già da molti anni eravamo abituati ad avere in estate le caserme piene di soldati della artiglieria alpina con i loro muli parcheggiati nei cortili e trotterellanti per le strade (se la memoria non mi tradisce, erano alloggiati in quel fabbricato, ora di proprietà della farmacia Cavallo, nella pizzetta che c’è fra piazza dell’Olmo e piazza Littoria). La Bisalta era stata scelta come poligono di tiro per l’esercitazione con le batterie 75/13 someggiate, ed è per questo che i giovani artiglieri di leva venivano a fare base nel nostro quieto paese portando una vitalità che il nostro sonnacchioso villaggio non ha più conosciuto. Gli squilli di tromba si erano quasi sostituiti al battere delle ore del campanile nello scandire i tempi della giornata. Mi sembra ancora di sentire la voce della mamma che nelle tiepide sere estive mi invitava a rientrare a casa: «Ma mamma è ancora presto». «No, è tardi invece, hanno già suonato il silenzio». Chi tra coloro che hanno vissuto quel periodo avrà dimenticato le malinconiche note della ritirata che sull’imbrunire il trombettiere andava ripetendo un paio di volte in diverse direzioni per richiamare i militari in fuoriuscita a rientrare nelle caserme? Un altro squillo indimenticabile era quello che invitava i soldati ad allinearsi per il rancio. Di solito la distribuzione avveniva in quella che allora chiamavamo piazza Littoria (ora piazza dei partigiani). Dalle cucine poste nell’angolo tra la piazza e la via... uscivano delle fumanti marmitte piene di “tubi”, la pastasciutta di maccheroni. Gavette alla mano i militari passavano davanti ai cucinieri che con un mestolo la riempivano, poi sul coperchio della stessa depositavano un pezzo di carne bollita. Sotto il braccio tenevano una pagnotta tonda tonda tutta mollica con la quale spesse volte venivano lavate le gavette. Finita la distribuzione si avvicinavano i più poveri del paese con i più strani recipienti. I cucinieri servivano loro gli avanzi e a qualcuno veniva anche permesso di raschiare il fondo della marmitta. Quelli poi se ne andavano ringraziando a mangiare quella che per i militari era una sbobba, ma che loro trovavano buonissima.

Come non ricordare di aver visto almeno una volta uno di quei grossi muli d’artiglieria correre impazzito per le vie del paese con il conducente che lo inseguiva per portarlo alla ragione? Un giorno sulla piazza dell’Olmo arrivò al galoppo una di quelle bestie fuori controllo con il basto ed il carico del cosiddetto scudo che gli sobbalzavano sul groppone. Fu un fuggi fuggi generale. Un graduato di cui non ricordo il nome, ma ne conservo la bella immagine, uscì coraggiosamente allo scoperto, raggiunse il mulo e strattonandolo facendosi trainare per la briglia riuscì a fermarlo ed a calmarlo. Un ufficiale che aveva visto il gesto lo elogiò e gli offrì una sigaretta. Noi ragazzini eravamo sempre in mezzo a loro e li seguivamo durante le esercitazioni in piazza Littoria. Qui i cannoni venivano montati e rismontati, poi pezzo per pezzo venivano caricati sui muli. Sul primo veniva caricato lo scudo, sul secondo ci mettevano le ruote, sul terzo la canna dell’obice. Quante foto si sono viste con un artigliere che da solo regge questo pezzo nel gesto del presentat-arm a dimostrazione della sua forza. Noi li ammiravamo, questi soldati, e non vedevamo l’ora di essere come loro. Una volta durante una marcia in Bisalta un mulo cadde in un burrone uccidendosi. Il conducente colpevole di non aver saputo evitare l’incidente si prese 15 giorni di prigione di rigore che dovette scontare in una tenda posta nel cortile che si apriva sulla stalla dei muli per accedere alle quali si entrava in un portone che dava sulla via dell’ospedale, allora «cuntrà d’le m...» dove noi bambini abbiamo passato ore e ore a tirar sassi agli ippocastani che sporgevano dai giardini di Pessione per far cadere le castagne d’India. Cerimonia particolarmente allegra e suggestiva era quella messa in atto dai veci che stavano per andare in congedo. Quella sera il silenzio veniva suonato con le modulazioni particolari che lo facevano «fuori ordinanza». Al suono della tromba si univano le urla di gioia dei congedanti che sfottevano i bocia ricordando loro quanto avrebbero dovuto penare prima che la naja finisse anche per loro.

Durante la guerra questi riti non venivano più celebrati perché i soldati che lasciavano il paese non tornavano a casa, ma andavano a combattere su qualche fronte. Noi non badavamo molto a questi avvicendamenti, i nostri amici ufficiali stranamente ci trattavano cameratescamente anche se eravamo molto più giovani di loro forse perché ci sapevano amici o fratelli di quelle ragazze che loro corteggiavano. Particolarmente simpatico mi era il sottotenente Ricotti che penso fosse nativo di una città lombarda e che si era invaghito della nostra Luisa, allora appena sedicenne, ma già con le grazie di una signorina. Per strada spesse volte vedevo passare in bicicletta una bellissima ragazza molto riservata difficile da avvicinare. Era la figlia del colonnello. Io la ammiravo ma ne avevo soggezione. Un giorno non so come, ma mi chiese di aiutarla a risolvere un problema di matematica. Per me fu una grande emozione, ma tutto finì lì non ebbi più modo di incontrarla. Con la moglie del tenente Graglia, il veterinario del reggimento, si era invece instaurata una simpatica amicizia. La signora, molto bella, era corteggiatissima, sembrava molto più giovane del marito che probabilmente per i doveri della sua funzione la trascurava un po’. Così lei era felice di frequentare noi pivellini che le sbavavamo dietro, fino a farsi vedere in costume da bagno quando andavamo a prendere il sole vicino a qualche “lama” del torrente Gesso. Sono stati gli anni dei primi amori e delle forti amicizie. Io passavo l’inverno a Torino dove mia zia Marcella (la severa sorella dell’esattore Giraudo) mi concedeva poche distrazioni oltre allo studio.

Così non vedevo l’ora di tornare a Boves dove riacquistavo tutta la mia libertà e dove avevo gli amici più cari. Incominciavo allora a fare la corte alle giovani villeggianti, che poi col passare del tempo sarebbero diventate delle sfollate, più che altro per sfuggire alla fame che nelle città e in particolare in Liguria era particolarmente sentita. Le tessere annonarie concedevano quel tanto che bastava per non morire di fame. In paese invece non era difficile trovare qualche uovo in più, patate, castagne e a volte anche un po’ di farina. All’osteria della Rivoira si potevano mangiare delle ottime raviole. La borsa nera era proibita ma era incontrollabile. Come dimenticare quelle serate a casa di Michele Martini quando ci invitava a dividere con lui un salame che aveva appena portato su dalla cantina il tutto accompagnato da pane bianco e innaffiato da un bicchiere di nebbiolo genuino! L’austerità proclamata per lo stato di guerra aveva proibito tutti i balli. E allora noi nel chiuso delle nostre case imparavamo a muovere i primi passi di valzer e di tango al suono di vecchi dischi fatti girare su uno dei rari grammofoni a molla. Il mondo andava a catafascio e noi pensavamo all’amore. Non è meraviglioso che mentre sui vari fronti giovani appena più anziani di noi si uccidevano senza una ragione, a Boves Rina e Franco incominciavano a volersi bene, quel bene che poi li accompagnerà per tutta la vita?