Erio Baudino

Chi avesse occasione di bighellonare per il paese di Boves potrebbe imbattersi in una via intitolata a Erio Baudino, classe 1923, medaglia d’argento al valor militare. Mi chiedo cosa può dire una così scarsa iscrizione di un ragazzo in carne e ossa, con il quale ho giocato ore e ore quando eravamo bambini e del quale conoscevo ogni pensiero e ogni ambizione. È morto che aveva vent’anni.
La sua vita stava per incominciare quando una scarica di pallottole la troncò nel poligono di tiro alla periferia di Cuneo, un triste giorno del dicembre 1943. lo penso che non sarà morto del tutto se riuscirò a farlo vivere attraverso i miei ricordi e questo penso di doverglielo, per quell’amicizia che ci ha legati nell’età dell’innocenza e che vorrei continuare nelle mie memorie.
Fu un eroe? Non lo credo, fu piuttosto una vittima che a posteriori, non potendo far altro per lui, gli si dà una medaglia. Le nostre vite sono andate via così parallele che mi sembra strano sia capitato a lui e non a me; so che allora ebbi quasi un sentimento d’invidia per l’esperienza che stava facendo, superiore alla mia, e pensavo a come si sarebbe vantato per quell’episodio che, purtroppo per lui, non poteva avere un seguito. È strano, ma quando suo fratello Luigi, che era andato a Cuneo per provvedere alla sepoltura, mi disse: “Hai perso un amico”, non provai tutto quel dolore che avrei dovuto sentire. In fondo, in quel periodo la morte era di casa e io non ero riuscito ad afferrare subito che quella morte non era una qualsiasi, ma era qualcosa che mi riguardava personalmente. Da quel momento in avanti non avrei più potuto parlare con lui. Per molto tempo continuai a sognare che, a guerra finita, fosse tornato ma non mi raccontava niente, non mi diceva mai dove fosse stato tutto quel tempo.

Erio Baudino era il terzo figlio della “Ciatina” (gattina), donna di montagna di grande carattere e piccola statura. Era rimasta vedova presto: il marito era tornato dalla guerra 15-18 coi polmoni intaccati dai gas e, dopo aver generato Erio, se n’era andato.
La sorella, maggiore di parecchi anni, aveva sposato il cugino Edouard ed era andata a vivere in Francia, a Brignoles, in Provenza. Erio mi parlava spesse di questo cognato che, ogni tanto, veniva a trascorrere qualche giorno a Boves. Aveva capelli crespi alla “Pampurio” e faceva l’elettricista. Per i bambini era un mito, anche perché possedeva una potente motocicletta, cosa rara per quei tempi. In realtà era un poveretto che viveva in parte con i sussidi del governo francese per via della famiglia numerosa. Purtroppo, forse a causa della consanguineità dei coniugi, i bimbi erano tutti quasi ciechi.
Nel periodo in cui vissi a Tolone, ebbi modo di far loro una visita a sorpresa. Sarà stato pure in parte dovuto alla guerra, ma è certo che la scena presentatasi ai miei occhi fu di grande desolazione. In una specie di negozio pieno di scaffali vuoti giaceva, tra le scansie, un numero incredibile di ragazzini con gli occhi velati. Non mi fermai molto con loro perciò, dell’incontro, non mi è rimasta che quest’immagine confusa. Con Annetta, la figlia, andrà a vivere i suoi ultimi anni la mamma Angelina, ormai distrutta dal dolore, senza che in lei nulla ricordasse la donna energica che comandava Erio a bacchetta.

Il fratello Luigi era anche lui motivo di storie raccontate fra amici. Mi diceva del busto di ferro che indossava per giocare al calcio, e io allora credevo che facesse parte dell’attrezzatura di tutti i giocatori. In realtà era affetto da una deformazione alla schiena che lo rendeva gobbo e arrabbiato. Di mestiere faceva lo scultore in legno ed era anche molto bravo nel suo lavoro, ma era un despota che voleva fare le veci del padre e, pur vivendo per conto proprio, non perdeva occasione per tiranneggiare il mio povero amico. Quello che più mi dava fastidio era quando Erio doveva lustrargli la bicicletta, oppure quando, munito di martello e scalpello, doveva sbozzargli qualche pannello dei lavori che aveva in corso. Mai Erio ebbe a ribellarsi a questa tirannia, anzi ne traeva motivo d’orgoglio e io, che non pensavo che a giocare, lo odiavo per questo.
Era un ragazzo troppo perfetto per il mio carattere; nei suoi confronti io ero uno zingaro, sempre per strada, i soli orari che conoscevo erano quelli dei pasti. Lui no, lui aveva dei doveri che assolveva con grande serietà. A metà di un gioco, consultava l’ora al campanile e diceva: “Ora devo andare a casa per sostituire la mamma in bottega”. Sì, perché la madre gestiva una piccola merceria proprio sulla piazza vecchia, quella con l’olmo; il negozio aveva un retro che veniva usato come cucina, salotto, camera da pranzo, ma le camere da letto erano all’ultimo piano del fabbricato e, per andare a fare i letti, l’Angelina doveva lasciare il negozio abbandonato. Ma perché Erio mi aveva scelto come l’amico più importante? Forse perché mi poteva dominare: in effetti aveva ben due anni più di me e quando si frequentano le elementari contano molto certe differenze. D’altra parte anch’io mi sentivo attratto dalla sua maturità e mi lasciavo trascinare dai suoi discorsi, anche se forse erano conditi da molta fantasia.

Da quando mi ricordo Erio è sempre stato il mio compagno di giochi e di vita. Andando indietro nel tempo mi vedo vestito da zigano nella recita dell’operetta “Il Balilla”, messa in piedi tra gli scolari del paese, dove il mio amico era l’eroe principale: in una festa di paese gli zingari rapiscono una ragazzina; il Balilla li insegue e con l’inganno e l’astuzia libera la fanciulla. Era tutto un susseguirsi di quadri dove si cantava, si ballava, si recitava. Nella scena dei glicini ballavano Olga, Licia ed Ettorina, che per gli anni a seguire sarebbero state le nostre compagne di gioco più affezionate; il portico della piazza era una nave e noi i viaggiatori: le ragazze erano le nostre fidanzate. Purtroppo per me, tutte volevano Erio e io mi sentivo molto frustrato per questo.

Sovente in autunno, Erio mi invitava ad andare con lui a raccogliere le castagne nel bosco della mamma, che si trovava quasi in Rosbella, la frazione più alta di Boves. lo ci andavo volentieri e ricordo le partenze dal paese di buon mattino, quando i prati erano già coperti di brina, la lunga camminata, l’albero cavo che era stato scavato dal fulmine e che poteva servire da riparo in caso di pioggia, i sacchi che si riempivano, la colazione al sacco, la discesa in paese quando già il sole era calato.
Fu durante una di queste passeggiate che Erio mi disse: “La mamma ha deciso di farmi studiare, il prossimo anno frequenterò le magistrali a Cuneo”. “Accidenti, che fortuna!”, pensai, “diventerà un maestro, e io cosa farò, manderà anche me la mamma a studiare a Cuneo?”. Non fu proprio così, giacché fu mio zio che mi ospitò poi a Torino dove potei diplomarmi all’Istituto Industriale.
Di Erio ricordo ancora una gara di sci ai Cerati, organizzata dall’Opera Balilla. lo non potevo partecipare perché troppo giovane. Prestai a lui i miei sci, ma lui proprio non ci sapeva fare, tanto che a gara conclusa dovettero andarlo a cercare sulle piste per riportarlo a casa. Ma se non era uno sportivo, era però formidabile nei giochi intelligenti: era bravo a scopa e quasi imbattibile a dama. Ricordo la rappresentazione di Madonna Lesina del 1938, forse l’edizione più spettacolare che sia mai avvenuta di quest’antica messinscena. lo e lui eravamo i paggi del “Greco”, un personaggio che fra tutti gli altri era venuto a rendere omaggio all’avarizia della Compagnia dei Lesinanti. Fu un agosto indimenticabile. Erio intanto frequentava con successo le magistrali e trovava anche il tempo per prendere lezioni di violino. In questo però non eccelleva e ogni sua esibizione era uno strazio per le mie orecchie.

Come tutti noi era un fascista entusiasta, aveva frequentato i Campi DUX a Roma e io lo invidiavo da morire per questo. Poi io incominciai le scuole a Torino, a Boves venivo solo per le vacanze di Natale, Pasqua e per l’estate, tuttavia la nostra amicizia non venne mai meno, anche le manifestazioni assunsero una forma diversa. In paese io vantavo molte amicizie, giocavo al calcio, facevo il bagno nei torrenti, “flirtavo” con le villeggianti. Lui no, continuava a essere un esempio di serietà e di attaccamento al dovere familiare e scolastico. Nell’occasione della festa dei “coscritti”, un giorno in cui andò a Cuneo a passare la visita di leva con i compagni del 1923, invece di unirsi ai loro bagordi fece una cosa che mi commosse profondamente. Venne a Torino, si presentò da mia zia e le chiese se potevo uscire con lui per andare a vedere uno spettacolo. La zia, che era molto attenta alle mie compagnie, non fece alcuna obiezione. E così ce ne andammo a vedere una rivista “peccaminosa”, forse di Macario, con le ballerine discinte che ci mostravano le loro più nascoste bellezze senza pudore. E noi eravamo in un palco di proscenio. Doveva aver speso una fortuna per festeggiare la leva, e l’aveva divisa con me, l’amico del cuore. Capii nell’occasione che in fondo anche Erio aveva le sue debolezze: le donne dovevano piacergli parecchio.

Poi scoppiò la guerra. Lui si era ormai diplomato maestro, ma si era iscritto alla facoltà di Magistero per diventare direttore didattico.
Fu nei primi anni del conflitto che a casa Baudino fece la comparsa una radio. Oggi fa ridere pensare a che importanza poteva avere il possesso di una radio, ma allora in paese credo si contassero sulla punta delle dita i proprietari di tale prestigioso strumento. E quello di Erio era proprio bello, onde medie e corte e perfino con l’occhio magico. Ogni tanto, quando la madre le permetteva, invitava anche me a godere di tale meraviglia. E così arrivò la terribile estate 1943.
lo ero stato reclutato come lavoratore e portato a Tolone in Francia assieme ad altri amici del 1925.
AI ritorno, in paese era già successo di tutto. In montagna i ribelli di Vian si stavano organizzando su basi militari, e fra di noi si faceva un gran parlare delle scontro con i tedeschi avvenuto il 19 settembre, e di come nei avremmo potuto prender parte alla lotta contro di loro. Si costituì così un gruppo formato da Beppr Lerda, Mario Dalmasso, Roberto Capello, Mario Martini, i fratelli Artusio, io, Erio e altri, che non saremmo andati a San Giacomo (sede della banda), ma avremmo abitato una casetta fra le vigne sul costone della collina che da Sant’Antonio scende verso i Cerati. Una stanza del fabbricato era adibita a magazzino ed era piena di armi e di sacchi di filo, provenienti da un colpo di mano fatto ai magazzini del regio esercito. Intanto si erano riaperte le scuole, io dovevo ancora finire l’ultimo anno prima del diploma e la classe dei ‘25 non era ancora stata chiamata alle armi. Mi recai quindi a Torino deve ripresi a frequentare l’istituto tecnico in attesa degli avvenimenti.

Ogni fine settimana tornavo a Boves, anche se il viaggio era sempre un’avventura su treni bui, non riscaldati, con il pericolo dei bombardamenti; ma ne valeva la pena, perché la mamma mi faceva sempre trovare un po’ di pane bianco e qualcosa da mangiare in più, che a Torino non era possibile avere. Fu durante uno di questi fine settimana che appresi della paurosa avventura capitata ai miei amici nella casetta tra le vigne. L’episodio penso sia già stato raccontato da altri, io lo riporto come lo appresi dai miei amici.
Non era da molto che avevano cominciato a trascorrere anche le notti nel casolare e, per non annoiarsi, una metà di loro a turno andava a vegliare al “Vic”, una cascinetta tra Sant’Antonio e Fontanelle abitata da cinque ragazze dolcissime, contente di avere compagnia al caldo della loro stalla nelle lunghe serate del tardo autunno.
Erano rimasti in casa Mario, Artusio e altri due e giocavano a carte al lume della bellissima lampada a petrolio che la mia mamma aveva anticipato loro, in attesa del mio arrivo.
Tutt’un tratto una scarica di mitra attraverso la finestra colpisce la lampada lasciando i miei amici completamente al buio. Per istinto, Mario e Adolfo si buttarono sotto la finestra al riparo dai colpi, mentre fuori una voce gridava: “SS occupato Boves. Voi uscire con mani in alto”. Io non so se per iscritto è possibile rendere l’atmosfera di terrore che quelle parole crearono fra i miei poveri amici. Si riteneva che le SS non facessero prigionieri, quindi uscire significava morte certa, ma, d’altra parte, cosa restava da fare?

Mario e Adolfo si avvicinarono alla porta quasi affiancati. Una torcia elettrica li accecò, poi uno sparo. Adolfo ebbe una mano trapassata da un proiettile, il sangue schizzò sul viso. Anche Mario si vide perduto... con la disperazione in cuore si lanciò fuori della porta, corse dove s’iniziava il pendio e ruzzolò a valle perdendo le scarpe che non aveva fatto in tempo ad allacciare.
Erio, Mario, Berto e Oreste, che stavano tornando dal “Vic”, sentirono gli spari e si affrettarono per andare a vedere quello ch’era successo; ma a metà strada un forte boato li bloccò. “Hanno i cannoni”, disse qualcuno, “che possiamo fare noi, coi nostri fucilini? Meglio tentare una via di fuga”. E così scesero in paese, dove trovarono tutto incredibilmente tranquillo. Per precauzione si diressero verso la campagna, e solo il giorno dopo si resero conto che nessun tedesco era venuto a Boves e che, per fortuna, salvo per la ferita alla mano di Adolfo, nessun altro s’era fatto male.
La casetta era comunque ridotta a un mucchio di rovine, perché il colpo di cannone sentito nella notte altro non era che la carica di tritolo usato per far saltare l’edificio. Dopo oltre sessant’anni dal fatto, è rimasto il mistero sia sulla motivazione sia sui nomi degli esecutori. Per Erio fu la svolta della vita. Persa la base, si presentarono a Vian che li accolse nelle sue file. Erio, avendo un titolo di studio, fu nominato allievo ufficiale e della cosa, son sicuro, fu molto orgoglioso.

Proprio in quel periodo venne presa la decisione di occupare il paese di Vinadio e parte della banda di Boves al comando di “Franco” (Francesco Ravinale) fu distaccata in Valle Stura. Fra loro c’erano: Erio, Giovanni Fiandrino, Mario Martini, Carlo “di Camilla” e altri ancora.
Di come non fosse tollerabile per i “nazifascisti” l’occupazione di una valle così importante per le comunicazioni con la Francia, è già stato detto in molti scritti sulla Resistenza.
Erio e Fiandrino erano in prima linea, quando un proiettile sparato da un autoblindo colpì il loro misero riparo; essi caddero, feriti, direttamente nelle mani dei fascisti i quali li caricarono su un’ambulanza e li portarono, sotto sorveglianza, all’ospedale di Cuneo. Con loro era stato fatto prigioniero anche un certo Franchino ma, non essendo ferito, riuscì, nella confusione del momento, a sgattaiolare dall’ospedale e a ritornare in banda. Si racconta che l’ambulanza fosse stata intercettata da altri partigiani giunti in valle con l’intenzione di dar man forte al distaccamento attaccato, ma che l’avevano lasciata proseguire pensando trasportasse feriti fascisti.

Ero appena arrivato da Torino quando appresi della cattura del mio amico. Mi recai subito a casa della sua mamma per avere notizie sicure. Non c’erano dubbi: Erio era in ospedale a Cuneo nelle mani dei “repubblichini”.
Più tardi arrivò il fratello Luigi che era stato a fargli visita, era sconvolto, ci disse che il povero Erio era ferito in un letto d’ospedale e che era già stato condannato a morte assieme a Fiandrino. Si poteva credere una cosa simile? Fossero stati tedeschi non avremmo dubitato della loro ferocia, ma erano degli italiani come noi che dicevano di difendere l’onore dell’Italia. Era questo l’onore che difendevano? Non li conoscevamo ancora nell’autunno del ‘43, se no, che speranze potevamo mai avere! L’indomani mattina li trasportarono in barella al poligono di tiro e posero fine a una vita esemplare, di un ragazzo che doveva ancora incominciare a vivere, ma che valeva cento volte la vita dei suoi assassini.
Qualche anno dopo, anche Luigi moriva in un incidente con la moto. Angelina partì per la Francia e il resto fu silenzio.