La mia guerra

1944, primavera. Finora tutto bene. Ho indovinato tutte le mosse e sono in debito con la fortuna? Alcuni cari amici se ne sono già andati, ma non c’è tempo per piangerli, ancora non è finita e non è detto che tutto continui ad andare così bene. Ora devo decidermi, gli amici premono per raggiungere una delle bande che sono risorte alle pendici della Bisalta. Oreste (Agnese) ha già lasciato il lavoro alla TODT di Saluzzo per unirsi ai garibaldini che hanno occupato il territorio da Castellar a S. Giacomo dove prima era dislocata la banda di VIAN. Verso i Gigutin-Pra del Soglio si sono sistemati i partigiani del capitano Marco, sono dei G.L. ed è con loro che i miei amici Mario Dalmasso e Berto Capello sono in contatto.
Io son sempre stato dalla parte dei ribelli fin dall’inizio, quando sono tornato dalla Francia e ho visto il paese bruciato. Non mi sono mai chiesto chi avesse torto e chi ragione. Tutti in paese odiavano i tedeschi e i fascisti che li spalleggiavano, io non potevo che schierarmi con loro o rischiare di perdere la faccia davanti a tutti i paesani.

Come avevano potuto cambiare le cose in così breve tempo? Guardo una delle mie prime fotografie, sono a fianco di mio padre allora giovane e bello, ed io sono vestito da Balilla con tanto di fez e camicia nera. Come poteva essere diversamente. Mio papà era carabiniere, fedele agli insegnamenti ricevuti, non si curava della politica. Chi era al governo comandava e lui obbediva.
In paese si era formata un’associazione di combattenti della prima guerra mondiale che aveva per presidente Negro Carlo, un ex ardito pluridecorato. Mio papà lavorava con lui da Gramignani, una piccola fabbrica chimica che trattava la fecola di patata per farne quello che loro chiamavano il «peso d’oro» e che, mi pare, serviva per la concia delle pelli. Loro due da soli facevano andare avanti il lavoro visto che il padrone solo saltuariamente si faceva vedere a bottega. Sarà per questo che mio papà fu nominato segretario dell’associazione con compiti che mi sfuggono. So solo che alla domenica vendeva i biglietti del cinema muto (20-50 centesimi) che era gestito dall’associazione per autofinanziarsi. Negro era l’operatore del proiettore.

A ogni manifestazione politica i combattenti erano rappresentati da una bandiera, da Negro, da mio papà, da Andrea Cavallera (Dreia) che aveva una salumeria in piazza dell’Olmo, dalla vedova Marquet che aveva perso un figlio in guerra e poi, fieri delle nostre divise davanti a tutti, io e Nuccia negro. Non c’è vecchia fotografia che non ci mostri sull’attenti a fianco della bandiera e di fronte al monumento dei caduti. Quando cominciai le elementari fui costretto ad iscrivermi all’opera Balilla e se c’era contestazione non era certo di origine morale, ma piuttosto per il costo, per le nostre tasche decisamente salato, della tessera, perché se non mi sbaglio l’iscrizione costava ben 5 lire. In seconda ebbi come maestra la signora Dalmasso che era stata compagna di scuola di mia mamma e che mi prese subito in simpatia e così mi fece fare il corso da caporale. Per avere la striscia rossa sulla divisa dovevo conoscere a memoria il giuramento che diceva: «Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se è necessario con il mio sangue la causa della rivoluzione fascista». Io ripetevo le parole come se fossero una poesia senza minimamente soffermarmi sull’intrinseco impegno che mi prendevo pronunciandole.
Più tardi ebbi anche la medaglia al merito, con una motivazione che era tutta un programma e che a un certo punto dichiarava «sa rendersi simpatico» probabilmente alla maestra che mi voleva bene. La mia carriera di fascista continuò a Torino dove andai a frequentare le scuole secondarie. All’inizio ero un Balilla escursionista e con la divisa portavo sul fianco attaccata alla cintola una funicella ben arrotolata e che mai nel corso degli anni verrà svolta. Forse era solo un simbolo per riferirsi alle corde che gli alpini usavano per legarsi in cordata durante le scalate.
Le adunate del sabato pomeriggio furono una delle cose più noiose che io ricordo della mia giovinezza. I comandanti, insegnanti di scuola anche loro obbligati a fare quel servizio, completamente demotivati, ci facevano stare ore fermi davanti al portone della scuola. Poi urlando e minacciando facevano l’appello, che pare fosse la cosa più importante da fare, ed inquadrati ci facevano marciare su e giù per la contrada fino allo «sciogliete le righe» che ci rendeva la libertà di correre verso le nostre case. Passato avanguardista le cose non cambiarono molto. Ora la divisa si era modernizzata, quella di prima prevedeva un cappello alpino e le fasce mollettiere, ora in testa avevamo il solito fez, ma i pantaloni arrivavano alla caviglia ed erano chiusi verso le scarpe da un paio di ghette bianche di stoffa ruvida.
La divisa si poteva comprare con pochi soldi dalla Gil (Gioventù del Littorio) e mio zio me ne fece scegliere una abbondante che mi servì per tutti gli anni seguenti, anche se alla fine stentavo ad entrarci dentro. Cambiata la divisa, la solfa era sempre quella. Adunata al sabato pomeriggio, appello, ordine chiuso e ora di attesa a far niente. Che occasioni sciupate, se solo avessero preso esempio dagli scout.

Forse furono proprio quelle inutili adunate che non ci fecero prendere sul serio il fascismo. Di tutto quel periodo la cosa che mi rimase più impressa fu la visita a Torino di Mussolini. Alle sette del mattino eravamo già tutti allineati in piazza Vittorio. Avevamo dovuto alzarci ad un’ora incredibile e il Duce si sarebbe presentato sul palco verso le dieci. In piedi, annoiati a morte aspettavamo di poter gridare il nostro entusiasmo al padrone dei destini della patria.
Ad un certo punto un acquazzone veloce ci inzuppò da capo a piedi e ricordo la grande ilarità che suscitò in noi la vista del volto di un nostro compagno il cui fez bagnato si era stinto colando un liquido nerastro su tutta la sua faccia. In tutta la piazza non c’era un solo «borghese». In serata poi venne organizzata in suo onore una grandiosa fiaccolata. Le torce di cartone avevano dentro una pila ed una lampadina e la sfilata durò un’eternità. Erano momenti esaltanti, se l’orrenda dittatura si fosse fermata a questo non c’era motivo per non sentirsi fascisti. Nel paese c’era ordine, le notizie che giungevano a noi erano tutte positive. C’era serietà a scuola e nella vita civile, non c’era lotta sociale, eravamo poveri, ma dignitosi e le opere di assistenza non mancavano. Certo dovevamo seguire la corrente, ma la cosa non era poi così difficile e non comportava grandi sacrifici.
Perché poi quel benedetto Mussolini ci voleva far diventare tutti dei guerrieri? Se era solo per far paura ai vicini di casa, potevamo anche capirlo, ma non ci pareva possibile che volesse fare sul serio, doveva essere tutto un bluf. Chi poteva allora immaginarsi che in Germania prendesse il potere un pazzo nevrotico come Hitler? Fu lui la nostra rovina perché senza il suo cattivo esempio avremmo continuato felicemente a giocare a guardia e ladri senza fare del male a nessuno. Ma il Duce sognava la gloria, così volle metterci alla prova e ci mandò alla conquista dell’Abissinia. Fu un trionfo. Molti giovani, anche di Boves, partirono volontari. L’avventura li attirava e poi quante cose avrebbero potuto raccontare al ritorno. Tutti fummo convinti di essere invincibili. L’Italia fascista era riuscita laddove l’Italia democratica aveva fallito clamorosamente. Le sconfitte di Adua e Maccalè erano cancellate. Questa presunzione di potenza fu la nostra rovina. 

Personalmente avevo una paura nera della guerra. i racconti dei reduci delle trincee del Carso e del Grappa mi avevano impressionato terribilmente e l’esaltazione, tutta fascista, degli eroi caduti non compensava l’orrore di quello che era successo a tanti poveri ragazzi, polverizzati dalle granate. Poi adesso si parlava di combattere contro la Francia e Boves in caso di guerra sarebbe stato, nei migliori dei casi, la retrovia del fronte. perciò non andai mai in piazza a gridare che volevo i cannoni al posto del burro. Costretto ad uscire da scuola andavo a vedere i miei amici giocare a biliardo.
Fin qui Mussolini c’era andato bene, ma ora incominciava a fare errori di valutazione imperdonabili. Uno dopo l’altro: prima le coltellate alla schiena ai francesi in ginocchio, poi la campagna di Grecia, poi le batoste in Africa e per ultimo la disgraziata spedizione in Russia dove trovarono la morte decine di compaesani, scomparsi nella steppa con la «Cuneense». Si sa, in guerra non sempre si vince, ma essere mandati a morire contro un nemico il cui armamento era sproporzionatamente superiore al nostro, beh questo è un delitto di proporzioni gigantesche. Non c’era dubbio, se ero costretto a schierarmi doveva essere contro quelli che avevano fatto la rovina dell’Italia. E fu così che scelsi la via dei monti. Con Berto, Mario e Franco Artusio mi presentai verso la fine del maggio 1944 al capitano Marco, che ci accolse nella sua banda.