La storia di Rosa - 2

Questa testimonianza, in prima persona, è quella di Rosa Gaiaschi. Pavese, fu arrestata e deportata nel 1944.  Seconda parte.

> Al campo

Ah, l’appello! Si stava magari un’ora o due sotto la pioggia, sotto la neve, tutte le mattine. Poi, tante mattine, dovevamo andare in campo spoglie... nude, proprio nude: facevano magari per vedere se avevamo i piedi piatti, per guardare se gli occhi funzionavano, se c’erano i pidocchi in testa, per scegliere le malate, tutte nude!
Tra noi italiane cercavamo di comunicarci i nostri pensieri, le nostre paure, i nostri brutti presentimenti, vedendo quei carri pieni di morti che portavano al crematorio”. Era una cosa che... si era bestie... non si ragionava più neanche fra noi... 
Dopo la quarantena ci hanno mandato prima a tagliare le piante, poi alle sabbie: c’era una montagna di sabbia e una buca fatta forse da una bomba: dovevamo riempirla: in fila, ognuna prendeva una badilata di sabbia e la buttava nel mucchio accanto e così via, a catena, fino alla buca. Guai se si lasciava venire il mucchio alto; voleva dire che eravamo poco volonterose. Allora erano calci, legnate! Eravamo guidate da donne: erano peggio degli uomini, peggio! Erano felici di vederci piangere, di farci male. Noi si diceva: “Perché son tedesche”. Per noi dire ‘tedesco’ era la cosa peggiore, peggio di dire ‘Belzebù’.
Dovevamo essere sul lavoro per le sei del mattino: prima di partire davano una scodella di brodaglia nera: loro lo chiamavano caffè, ma erano foglie di piante bollite. Certo, bastava a mandar giù qualche cosa di caldo; si beveva anche volentieri, amaro naturalmente. Poi si andava al lavoro. Era molto, molto freddo, ci portavano fuori del campo. Ogni tanto incontravamo dei deportati che entravano in un altro campo: li abbiamo incontrati diverse volte, ma non osavamo guardare, perché allora erano legnate. A mezzogiorno ci portavano una scodella di brodaglia, e poi la sera, in baracca, un pezzettino di pane, con una fettina, un’ostia, di margarina e basta. A mezzogiorno la sosta durava un quarto d’ora, poi dovevamo riprendere subito a lavorare fino alle sei di sera.

Il lavoro alle sabbie è durato fino ai primi di novembre. Si diminuiva gradatamente di peso, non si aveva più voglia di niente, neanche tra noi si parlava più troppo; soltanto chiedevamo notizie quando passava qualcuna da un altro campo. Ma che notizie erano?... La chiamavamo ‘radio boiolo’ perché erano cose inventate, tanto per darci un po’ di coraggio.
Quando si arrivava al campo, che si era ancora un po’ floride, le tedesche chiedevano chi voleva andare per il lavoro nero, a far compagnia al tedeschi. Ci sono state due o tre francesi che hanno accettato e diverse olandesi; di italiane, per fortuna, neanche una e per questo ci sentivamo ancora più avvicinate, più affratellate.
A poco a poco eravamo diventate amiche anche con le deportate degli altri paesi. Però c’è voluto del tempo e abbiamo dovuto spiegare chi eravamo. Perché in principio ci chiamavano: “Fascista. Mussolini. Badoglio, tu Mussolini”. lo avevo fatto amicizia con una francese, è stata lei a fare da interprete, a dire alle altre che noi eravamo lì perché eravamo contro i fascisti. Ero amica anche di una russa: questa poverina faceva pena. l’avevo sempre vicina. Alla mattina. all’appello, non ce la faceva a stare in piedi; io ero dietro di lei, cercavo di sostenerla un po’, mi diceva: “Core. mazo core: tanto male”; allora le facevo un massaggio alla schiena per riscaldarla un po’. Quella notte disgraziata, in baracca, lei continuava: “Mazo core, mazo core... “. Un bel momento ho detto: “Irka, smetti, è quasi ora di alzarsi e non ho ancora chiuso occhio, smettila un po’!” Lei allora non gridava più, mi accarezzava la mano, me la baciava e poi s’è... Ho detto: “Meno male, si è addormentata”. Ho dormito anch’io una mezz’ora, poi le dico: “Irka. fatti in là”. Mi aveva appoggiata la testa sulla spalla... Era morta. Mi son presa una cosa... Ma perché l’ho sgridata! Ero stanca, ero sfinita. non ce la facevo più. Dicevo: “Adesso è ora di alzarsi. come faccio! E se non riesco a fare il mio lavoro, qui son legnate... “ Povera Irka, avrà avuto 18 anni!

La Canera era andata nella baracca vicina. insieme all’Anna Baldisserotto di Milano e all’Anna Botto. Anna Botto era sfinita. Continuava a dire: “lo non ce la faccio. io non ce la faccio tutte le mattine ad andare all’appello; io a fare tutta quella strada non ce la faccio”. Siccome avevano chiesto chi voleva andare nel blocco delle invalide a lavorare a maglia, lei ha accettato subito, anche se io la sconsigliavo perché non c’era da aspettarsi buon cuore dai tedeschi. Dopo qualche giorno, una settimana neanche che era là, ci incontriamo al Wasser, ai gabinetti, e le dico: “Anna, come va?” Mi guarda con gli occhi fissi e poi si mette a cantare: “Ritorneremo a maggio con tante rose”. Era diventata matta. Quando ormai non ero più a Ravensbruck ho chiesto di lei, mi hanno detto che il blocco delle invalide, delle pazze, era stato distrutto col lanciafiamme.

I pidocchi erano una cosa spaventosa! Il nostro daffare quando si tornava in baracca, era spidocchiarci: ma se ne uccideva uno e sembrava che ne nascessero dieci. Avevano una riga nera in mezzo, dicevamo: “Proprio anche i pidocchi sono tedeschi”.
Noi eravamo sempre comandate dalle donne; le SS le vedevamo, le sentivamo anche urlare, perché urlavano dalla mattina alla sera. Davano ordine alle tedesche di picchiare, di maltrattarci; per loro eravamo delle bestie. Alle volte sentivamo gli aeroplani passare... “ Almeno venissero a bombardare qui”; invece il campo era tutto illuminato, giorno e notte, dai fari, così gli aerei passavano e non lasciavano giù niente (perché noi si sperava anche quello, alle volte, tanto eravamo stufe di quella vitaccia!). Una volta, c’era un traffico... Hanno detto: “Domani arriva Himmler”. Eravamo terrorizzate, perché era la pecora nera, a sentire le altre; invece, per fortuna, non è venuto dalla nostra parte. Io portavo il numero 77395: vuol dire che ce n’erano almeno 50.000 nel campo, quindi non poteva visitare tutto nelle due o tre ore in cui è rimasto.
Di Ravensbrück ricordo le legnate che prendevamo, quelle erano all’ordine del giorno. Poi l’odore: dalla mattina alla sera si sentiva la puzza di carne bruciata; persino gli abiti, la roba che si mangiava aveva quell’odore, acre, unto. Quelle che erano dentro da più tempo di noi dicevano che portavano delle deportate a fare esperimenti nel Revier, ma non so che tipo di esperimenti.

> Lavori forzati

Un mattino, quando c’è stata la solita adunata, ci hanno prelevato in dieci italiane e ci hanno detto: “Voi andate in un altro campo a lavorare”. Eravamo io, Maria Zonta, Maria Raimondi, Livia Rossi, Maria Rossi, la Topolino, Gina, Franca Renzi di Napoli, una zingara di nome Antonia. Quando sono partita da Ravensbrück mi hanno dato un vestito blu un po’ più pesante, con la X tracciata dietro, un paio di calze da uomo e gli zoccoloni olandesi però fatti a scarpa. Ci hanno portato col treno, poi ci hanno fatto fare a piedi, nella neve tre chilometri e più fino a Henigsdorf. Hanno portato me e Franca Renzi in un blocco, le altre in un’altra baracca, Maria Rossi e la Zonta da un’altra parte.
Eravamo in due ogni letto, c’era persino un materasso di paglia con una coperta ciascuno. Noi siamo arrivate che la baracca era vuota e abbiamo dormito tutta notte: “Ma pensa, siamo signore. Un castello tutto per noi”. Verso il mattino sentiamo: “Ticchete, ticchete... “, zoccoloni che arrivano: entrano una ventina di donne e si mettono a parlare; ma chi capiva il russo e il polacco? Stavamo là come delle oche.
Fra loro c’era una polacca: viene vicino e ci chiede da che parte veniamo: a me è venuta una rabbia perché non riuscivo a farmi capire e ho detto: “Veniamo dall’inferno”, in italiano. Lei, allora: “Inferno, Dante, italiano, italiane’” Ho detto: “Sì”. Anche le altre si sono affratellate subito, ma la Nina mi è sempre stata vicina, mi aiutava. se non fosse stato per la Nina non so se sarei tornata. Alle volte, se mi vedeva triste, mi metteva un dito sul naso e mi diceva: “Ti, piccolo bambino”. Anche adesso me lo scrive: “Ti, piccolo bambino”. Lei parlava il francese, l’inglese, il tedesco, era molto istruita: io e lei parlavamo francese e lei mi faceva la traduzione con le altre.
Alla sera Nina e le polacche mi dicono: “Umaga, umaga. attenzione, attenzione!

“Vai a chiamare le altre italiane”. lo vado e le faccio venire nella baracca che era proprio vicino alla strada. Nina prende me e Franca Renzi strette vicine e dice: “Chico Dagni. Non parlate, sentiamo cantare in italiano: “Va pensiero...”. lo stavo per urlare e la Nina mi ha chiuso la bocca. Son passati degli italiani vicino alla nostra baracca, si può immaginare la commozione. Allora mi sono detta: “Qui bisogna cercare di parlare con questi italiani”. All’indomani prendo la Topolino (era una ragazza di nome Ada. la chiamavano Topolino perché era alta così. ma svelta che... guai! era così furba che la faceva sotto agli occhi anche alle tedesche) e le dico: “Andiamo fuori io e te e parliamoci, cerchiamo di farci sentire”. Infatti alla sera, quando abbiamo sentito avvicinarsi gli italiani (i tedeschi erano contenti di sentirci cantare, per la popolazione) la Topolino comincia: “Mamma Rosa, dove sei?”. “Sono qui. E tu dove sei?”. “Sto rosicchiando una crosta di formaggio. adesso arrivo”. Gli italiani si son fermati di colpo: allora la Topolino si è messa a cantare: “Andate, andate non fermatevi, che è peggio per noi”. “Ma, come, anche le donne hanno portato in questi luoghi?”. “Andate. andate via, dateci notizie”. Allora abbiamo inventato una canzone, loro passavano e noi si cantava: “Notte, tu che sei fatta per amare, notte per noi significa soffrire e soffro assai perché son qui rinchiusa in prigione senza un fil di soddisfazione, senza speranza di tornar. Oh italiano che passi per questa via, dammi tu notizie dell’Italia mia”. E loro ci rispondevano il giorno dopo, sempre cantando: “Non tengono più la pace né notte, né giorno, bombardamenti intorno e su Berlino stan: su italiane, su coraggio, che i russi son qua. Presto verranno nel tuo lager a dar la libertà”. La canzone l’avevamo scritta la sera. un po’ l’una, un po’ l’altra: usavamo dei pezzettini di legno bruciato e la carta con cui era avvolta la roba che portavano nel campo.

Ci hanno mandato a tagliare la legna nei boschi, i primi due o tre giorni, un gruppetto di polacche e due italiane. Io e Franca Renzi segavamo gli alberi come gli uomini: noi dovevamo produrre come gli uomini, altrimenti ci pestavano. Poi ci hanno destinato alla fabbrica che distava tre chilometri dal lager e undici da Berlino. Era pesantissimo il lavoro in fabbrica: là diverse di noi sono state destinate a far le bombe per gli aerei e i tedeschi dicevano: “Ancora poco, poi noi... tutti kaputt. Italia tutta kaputt”. Allora abbiamo pensato di fare del sabotaggio: io dovevo infilare delle cannucce di plastica nel fili di rame dentro dei tubi di porcellana; prima di infilarli cercavo di prendere due o tre fili di rame da una parte. due o tre dall’altra e facevo fare contatto, poi li infilavo dentro il tubo: nessuno vedeva niente, quando andavano al collaudo si spaccavano: e allora la colpa non era nostra, ma di quelli che fabbricavano la porcellana perché era debole. Le polacche e le russe, quando hanno visto, erano felici di poterlo fare anche loro!

> Altri italiani

Dall’altra parte della nostra fabbrica c’erano degli uomini: fra questi, due o tre italiani. Erano militari che erano passati liberi lavoratori; loro potevano uscire ed erano pagati quasi come operai. Chi ha scoperto che erano italiani è stata una russa, la Irka, che me ne ha indicato uno. Facevamo il turno di notte e ci davano un quarto d’ora di sosta. da mezzanotte alle dodici e un quarto: i caporioni andavano a prendere il caffè, noi ci scambiavamo qualche parola e potevamo andare vicino a una caldaia in mezzo alla fabbrica. Quell’italiano veniva a prendere l’acqua bollente per farsi il tè; io e la Nina gli siamo andate vicino e ci siamo messe a parlare tra noi. lo ho chiesto: “Ma è vero che lei è italiano?” Si è fermato, non so come ha fatto a non scottarsi le mani! È rimasto lì: “Come? Italiane donne, qui dentro? Come mai?”. lo fingevo di parlare con la Nina. in realtà parlavo con lui. che mi voltava le spalle, Bisognava far così per non essere scoperti. E così ci siamo ancora parlati altre volte.
Una volta lui mi fa passare un biglietto: ma dal portone principale era rientrato il ‘maestro’ degli uomini e aveva visto qualcosa perché è corso a controllare chi aveva consegnato il biglietto. La Nina subito me lo ha portato via e l’ha nascosto. Lui intanto arriva dalla nostra parte, guarda in giro, poi viene da me e mi dice: “Ti, papier italien”. Le polacche sono saltate lì pronte e hanno detto: “No, Rosa sempre qui, sempre qui”. La Nina in tedesco ha detto che ero sempre stata con loro; allora è andato via. Ho chiesto alla Nina di darmi il biglietto. “No. Tu non conosci i tedeschi.” Alla sera, all’uscita dalla fabbrica, ci hanno fatto spogliare tutte, completamente. Cercavano il biglietto e se lo trovavano erano guai, perché c’era scritto: “Domani mi mandano a combattere. mi vestono da tedesco. Mi mandano a combattere contro gli italiani; si figuri se faccio una cosa del genere. Tenterò la fuga, se mi va bene sarò a Pavia prima di lei e porterò notizie ai suoi cari”. lo, prima, quando mi chiedeva di dove ero, gli avevo dato l’indirizzo. Mi porto vicino alla Nina e pensò: “Se le trovano il biglietto dico: non è suo. È stato scritto da un italiano, io sono italiana”. Prima però la Nina aveva visto una delle poliziotte che andavano avanti e indietro con il fucile in spalla: era bella, allora la Nina con un carboncino, su un pezzo di carta della fabbrica, le aveva fatto un bel profilo, riuscitissimo. Poi glielo aveva dato, quella era così contenta che alla sera, quando c’è stato lo spoglio, la Nina si è portata vicino a questa tedesca e lei l’ha fatta passare.

Neanche in baracca la Nina ha voluto darmi il biglietto: “Te lo do domani”. mi ha detto. E aveva ragione. La sera ci lasciano coricare, poi viene dentro un picchetto di SS: fuori tutte, spogliate in mezzo al campo. Ma non hanno trovato niente. Quando siamo rientrate, la Nina, che aveva nascosto non so dove questo biglietto, me lo ha dato. L’abbiamo letto, la Nina l’ha spiegato alle altre; tutte mi abbracciavano contente, poi mi dicevano: “Coraggio, perché presto la guerra è finita: la va a pochi”. Poi abbiamo buttato il biglietto nella stufa.
In fabbrica c’era il maestro, quello che distribuiva il lavoro; poi c’era il comandante-capo, che noi chiamavamo ‘il Tigre’. perché era una bestia. arrivava dietro, anche se si stava lavorando bene magari dava un pugno sulle spalle o in testa, un calcio. Noi ormai non ci aspettavamo nient’altro: quando si arrivava alla sera senza prendere un calcio dicevamo: “Beh, oggi è stata una buona giornata”. Poi c’erano le poliziotte, che giravano avanti e indietro e due donne civili, che venivano da fuori, e ci sorvegliavano sul lavoro. Una era abbastanza buona, non ci trattava male, ogni tanto ci faceva un sorriso, cosa addirittura straordinaria per noi. Una volta, siccome si avvicinava il Natale, ha detto alla Nina che aveva un nipotino, ma non c’erano giocattoli; allora la Nina ha detto che, se le portava la stoffa, le avrebbe fatto un bel pupazzo; lei gliel’ha portata e stava attenta per lasciarla lavorare e farle fare questo pupazzo. Alla vigilia di Natale ha portato alla Nina un po’ di pane e due o tre biscottini: passa vicino al mio banco e mette là il biscotto anche a me. lo ho preso il suo biscotto, l’ho messo da parte e ho detto: “Non voglio niente dai tedeschi, non voglio la pietà dei tedeschi”. In italiano, ma lei ha capito. Ma è stata abbastanza generosa, perché io mi aspettavo un pugno: invece ha preso il biscotto e dopo un po’ mi è passata dietro e me lo ha messo in tasca. La Nina mi ha sgridata: “Non dovevi fare così!”. “Ma vah, tu e i tuoi tedeschi”. Alla sera. quando siamo tornate, ho preso il biscotto e l’ho portato in infermeria a una delle nostre che era ammalata.

L’infermeria era una baracca, arredata con i castelli: se non altro c’erano le lenzuola, magari sporche di pus, perché quando moriva una, allo stesso posto, senza cambiare le lenzuola, ne mettevano un’altra: ma, ad ogni modo, era meno peggio che a Ravensbruck. C’erano una dottoressa polacca e una francese. Quella polacca era una bestia; era una prigioniera, ma era diventata l’amante di uno dei tedeschi e allora ci trattava male, specialmente le italiane. Una volta hanno fatto il controllo ai vestiti: eravamo tutte piene di pidocchi fin sopra i capelli: alle altre non ha fatto niente, invece a me ha preso una bottiglia, non so di che liquido si trattasse, e me l’ha versata nella scollatura. Son diventata tutta rossa e poi tutta una piaga. Nell’infermeria potevamo stare due o tre giorni; quelli gravi li rimandavano a Ravensbrück. Di italiane ne è stata rimandata una sola, si chiamava Gina.
A Henigsdort mi hanno dato le mutande; non ho mai avuto il cambio, non potevo lavarle: non potevo quasi lavarmi neanche la faccia! Ogni tanto, alla domenica, ci portavano alla doccia, senza sapone né asciugamani: prendevano i vestiti e li buttavano in un forno e poi ce li rimettevano: alle volte, invece, li rimettevamo ancora così, bagnate come si usciva dalla doccia, perché non c’era niente per asciugarsi.
Il freddo era tremendo, una cosa addirittura spaventosa: forse anche per la denutrizione, il lavoro eccessivo, la gran magrezza, lo sentivamo ancora di più: io avevo sempre freddo. In baracca, la sera, per una mezz’ora, un’ora, facevano accendere la stufa. Noi ne approfittavamo per metterci sopra, tagliuzzate, le bucce di patate, facevamo delle specie di frittelle: erano una bontà! Le bucce andavamo a rubarle nella spazzatura, fingendo di andare ai servizi. La Livia, che era in cucina. a volte mi portava qualche patata, una volta mi ha portato una scodella di zuppa; cercava di aiutare, perché lei aiutava tutte le italiane. La fabbrica era riscaldata: se ci fermavamo a Ravensbrück, noi un po’ deboli non si riusciva a portarcela fuori.
Responsabile della nostra baracca era una polacca: era buona. La mia compagna nel castello in principio era Franca Renzi, poi una certa Edviga, una polacca. Franca Renzi è stata rimandata a Ravensbrück perché stava male, le girava la testa, ogni tanto aveva svenimenti, ma si è salvata: l’ho ritrovata, è venuta a trovarmi; suo marito è morto anche lui in campo.
Anche ad Henigsdort il letto doveva essere fatto alla perfezione; poi c’era l’appello: ci contavano in campo, all’uscita c’era il tedesco alla porta che ci ricontava; quando arrivavamo in fabbrica, alla porta c’era un altro tedesco che ci ricontava; quando eravamo al posto, il nostro maestro ci contava per vedere se c’eravamo tutte: era un contare continuo.

> Natale

A Natale non abbiamo lavorato. Le polacche avevano raccolto per strada dei pezzetti di legno e avevano fatto una croce. Alla vigilia di Natale l’italiano con cui parlavo mi è passato vicino e mi ha messo un fagottino in grembo, C’era dentro un panino bianco, una cosa straordinaria, un pezzo di salame e un frutto. Ho detto:
“Questo lo divideremo tra noi italiane”. La mattina di Natale, all’orario solito, le polacche si sono alzate, hanno messo la croce in mezzo alla baracca e si sono messe a cantare le orazioni sottovoce. Han detto il rosario. Io però sono rimasta nel castello perché era l’unico momento che potevo stare un po’ sola. Quando hanno finito di cantare, mi sono alzata, ho preso il mio panino bianco, l’ho spezzato in tanti pezzettini. l’ho distribuito a tutte e ho dello: “Ragazze, oggi è Natale. Facciamo anche noi la comunione; viene da un italiano. diciamo una preghiera anche per lui e facciamo la comunione con questo: credo che Dio l’accetti più di quella che si fa in chiesa”. Abbiamo pianto, riso... A mezzogiorno ci hanno distribuito la solita zuppa, abbastanza abbondante, un pezzo di pane e un bicchierino di birra. Ho pensato: “Guarda lì, ci hanno fatto fare un bel Natale, chissà se stasera ci danno ancora qualcosa”. Alla sera, quando è l’ora del gong per andare a ritirare la zuppa, non suona. Andiamo vicino alle cucine, è tutto spento: viene fuori la comandante e dice: “Da oggi, sospeso il pasto della sera”. Proprio il giorno di Natale! E da allora ci davano da mangiare solo a mezzogiorno: alla sera si piangeva, si cercava di strappare un po’ d’erba quando si andava in fabbrica, ai margini della strada, o delle foglie che cadevano dagli alberi e si cercava di mangiare di quello.

Per scaldarci la sera, raccoglievamo in fabbrica un po’ di stracci, quello che buttavano via, la carta. Un giorno di gennaio, avevo raccolto della carta unta e me l’ero nascosta in tasca. La sera. arriviamo al campo, fanno lo spoglio e me la trovano. Allora han preso nota del mio numero e la domenica mattina mi hanno chiamato: dovevo andare fra un reticolato e l’altro con un secchia senza manico a raccogliere la neve e le foglie morte, mettere tutto nel secchio e fare i mucchi: non so a che cosa serviva, ma era per castigo, tanto che poi sono svenuta; ero stanca, morta di fame, perché a me non avevano dato la zuppa, quel giorno. Allora è entrato ‘il Tigre’, mi ha dato un calcio, che ne sento ancora adesso le conseguenze, mi ha fatto alzare, mi ha fatto fare ancora due o tre giri e mi ha mandato in baracca. La Livia è corsa là, mi ha portato una scodella di zuppa, che mi aveva nascosto, e due patate, per rianimarmi un po’.
A parte calci e legnate, altre torture ad Henigsdorf non ne ho viste. A Ravensbrück, invece, se ne son viste diverse. Per esempio, se una faceva una mancanza. la lasciavano nel campo. legata a un palo per tutta la notte e, anche se urlava, doveva restar là: a un’altra (io non l’ho vista, me l’hanno detto) han tolto un dente, ma non completamente; mentre il dente traballava ancora, con una mano sopra e una mano sotto hanno schiacciato, di modo che... un male tremendo! Quando si andava al lavoro ci mandavano i cani dietro, e se una usciva di fila, i cani la mordevano.
La sera si parlava di casa nostra; io non facevo altro che parlare di mio figlio, di mio marito, mi faceva tirare avanti il pensiero di tornare in Italia: la famiglia era la cosa che più mi interessava: “Anche se trovo la casa distrutta, qualsiasi cosa, purché trovi ancora i miei vivi”.
C’era un’ebrea con noi, un’ungherese, giovane: le avevano tagliato i capelli a zero. Alcune polacche, come la Kascia, che era cattiva come il diavolo, non la potevano vedere: “Ti juda, li juda”, continuavano a buttarla da una parte. Allora io e la Nina, quando eravamo sedute in baracca e lei stava sola nella sua cuccia, la chiamavamo vicino. Si parlava in francese fra noi tre; anche la lutta Panuroma e la Edviga l’aiutavano. È una grande pianista ungherese, e almeno per le feste ci scriviamo sempre.

▶︎ Continua a leggere “La storia di Rosa” - Ultima parte