La tregua

1944. Passata la grande paura la vita riprese su ritmi normali e riacquistò la sua importanza il problema degli approvvigionamenti. In breve tempo recuperammo molti sacchi di farina da depositi nascosti e non trovati dai tedeschi, e i nostri amici panettieri si diedero subito da fare a confezionare le prime pagnotte. Usavano un forno a legna che si trovava tra i casolari lì vicino. Ricordo la prima infornata.
Tra i panettieri c’era Minetto Re d’ausei un ragazzetto che aveva un anno meno di me piccolino ma sempre pronto a correre a offrirsi volontario per ogni azione pericolosa. Comunque il primo giorno il pane non era lievitato ed era quasi immangiabile, parte della pasta venne messa da parte e nella notte cominciò a macerarsi e così il giorno dopo venne usato come lievito naturale e il pane bianco da quel momento non ci mancò più.
Trovammo il nostro comandante Marco con la moglie e i suoi fedeli cani, ritrovammo Ricu ciot, Giorgis, Enrico di Cuneo, il vicecomandante con il suo fedele mitra Beretta sul quale aveva inciso il nome della sua morosa seguito da un “Non mi lasciare”.

Con noi c’erano anche due piloti americani, Fred e John, il cui aereo era stato abbattuto dalle nostre parti, che vivevano in disparte considerato che nessuno di noi capiva la loro lingua.
Di straniero c’era anche un francese alto e biondo che si chiamava George. Lo aspettava una tragica fine. Non era più con noi Attilio Fontana che con alcuni fedelissimi si era sistemato ai Ciot, al di sopra di Roaschia, dove ero dislocato prima del rastrellamento. Di lì prima dell’inverno si trasferì nelle Langhe, dove molte bande avevano trovato rifugio, e io non lo rividi fino alla primavera del ‘45, dopo che molte cose erano successe nel frattempo.
La nostra attività in quei giorni era tutta rivolta a procurarci riserve di cibo. Avevamo stabilito che ogni pastore che stanziava sui pascoli montani avrebbe dovuto darci un numero di animali in proporzione alla consistenza del gregge. Naturalmente ricevevano da noi il solito buono di prelievo con promessa di pagamento a fine guerra. Devo dire che nel seguire questa operazione non trovammo opposizione. Non che i pastori fossero felici di darci le loro pecore, ma non fecero mai alcuna resistenza, si limitavano tutt’al più a indicarci gli animali più deboli e magri. Tornavamo al distaccamento spingendo avanti a noi un certo numero di quelle bestiacce, e chi dice che i muli sono testardi non ha mai provato a far camminare delle pecore controvoglia. Mi veniva voglia di ucciderle sul posto tanta era la fatica che ci toccava fare per trascinarle giù dalla montagna di balza in balza.
Più tardi i pastori incominciarono a scendere a Roaschia per poi raggiungere la pianura e così noi con il solito sistema sequestravamo loro una piccola parte del loro gregge, così da farci una piccola scorta di carne per l’inverno incombente.
Io con la mia trapunta rossa mi ero sistemato in una stanza dove c’era anche un camino, e mi pregustavo delle belle dormite anche nelle notti più fredde, sfortunatamente il camino non tirava e la stanza si riempiva di fumo ma non ebbi a dolermi a lungo per questo, visto come andarono le cose.

Durante la mia permanenza ai Tetti Tabanot con un paio di compagni fornimmo la luce elettrica in quei casolari sperduti. La linea che portava la corrente a Roaschia passava per la strada ai piedi della nostra postazione. Con dei fili scoperti e con l’appoggio degli alberi che ci servirono da pali, ci allacciammo alla linea principale e potemmo finalmente goderci serate meno tetre.
Poi per qualche motivo che non ricordo nei particolari, ma certamente dovuto alla mia insofferenza nei confronti del comandante Bianchini che mi era particolarmente antipatico, fui trasferito a Monfranco dove c’era la sezione macellai e dove i ragazzi erano quasi tutti di Fontanelle. Il trasferimento fu tutto a mio vantaggio, visto che lì il vitto era decisamente migliore e che la scelta delle frattaglie degli animali uccisi era tutta per noi. L’unica incombenza consisteva nel montare la guardia nelle prime ore del mattino a turno, portando con noi un bellissimo binocolo di provenienza americana che ci permetteva di scandagliare tutta la valle sotto di noi, fino a Roccavione.
Un giorno con l’amico Rovere di Fontanelle fui assegnato a una missione speciale, dovevo andare insieme al rosso a recuperare una mitragliatrice pesante che era rimasta abbandonata dopo il rastrellamento d’agosto. Fu una piacevole passeggiata, la postazione era ben nascosta sul costone che si affacciava sulla Valle Gesso, e da lì si poteva controllare un lungo tratto della via per Valdieri.
Recuperammo l’arma e il suo supporto, il tutto corredato da un certo numero di nastri completi di cartucce. Lungo la strada il Rosso mi raccontò di come erano andate le cose durante la prima giornata del rastrellamento: lui maneggiava un mortaio da 81 che dopo i primi colpi si era schiodato dalla piastra che lo sorreggeva, per cui aveva dovuto tenerlo fermo con le mani a rischio di scottarsi per potere continuare a fare fuoco.

Oltre al cibo anche le sigarette erano considerate per alcuni una necessità. Per cui ogni tanto ci si organizzava un colpo al tabacco, che consisteva nello scendere a valle e aspettare il passaggio di un tabaccaio che fosse andato a prendere la sua merce a Cuneo. Di solito veniva affidata a un carrettiere, lo fermavamo e prelevavamo tutto il tabacco che si trovava in quella spedizione, lasciando un buono. Con quel buono quasi sempre il tabaccaio riusciva a farsi dare altro tabacco.
Il colpo, comunque, aveva sempre una certa alea di rischio. Ma erano sempre così tanti i volontari che si offrivano per scendere a valle, che io non ebbi mai bisogno neanche di fare il gesto per offrirmi.
In quel periodo scendere in pianura non era poi così pericoloso come poteva sembrare. Io, dopo esser tornato fino a Boves una prima volta attraversando le colline (fu quando andai a raccogliere il corpo del povero Oreste), un’altra volta scesi addirittura in bicicletta passando per la strada provinciale. Sul manubrio portavo alcune pelli di pecora che intendevo far conciare per imbottirmi il cappotto invernale. Quando passai di fronte al cotonificio di Fontanelle vidi in fondo alla strada che portava alla casa del Bottero, il mio amico Carlo e Berto Capello che stavano amichevolmente chiacchierando con dei carristi tedeschi, per intenderci quelli vestiti di nero con il teschio sulla bustina.

Mi tremarono le gambe ma quelli, con ampi gesti, mi invitarono a raggiungerli e mi presentarono ai sorridenti militari, i quali non si stupirono minimamente nel trovarsi di fronte a un elemento più che sospetto. Ma questa la dice lunga sui rapporti che si erano creati fra noi e e i tedeschi: “Tu non fai male a me e io faccio finta di non vederti”.
Significativo il fatto che in quei giorni un paio di soldati tedeschi che si erano persi per la vallata furono catturati da un gruppo di partigiani e subito venne ordine dal comando di lasciarli liberi con tante scuse.
Quelli che non mollavano erano fascisti. Con il rientro degli alpini del Monte Rosa si erano formati dei gruppi autonomi, una specie di polizia militare formata dagli elementi più fanatici. A Borgo San Dalmazzo il tenente Salvi seminava il terrore. Altri elementi si erano infiltrati tra le truppe per controllarli, visto che la maggior parte dei ragazzi rientrati dalla Germania non vedeva l’ora di mollare tutto per venire con noi o andarsene a casa.
Intanto l’inverno incombeva, già le cime dei monti si erano imbiancate. Io montavo la guardia con il mio pastrano foderato di pelle di pecora, che quando me lo toglievo stava dritto da solo tanto dure erano le pelli dopo la concia approssimativa che aveva subito. In quei giorni i tedeschi promisero l’impunità a tutti i renitenti che si fossero presentati al loro municipio. Fu così che i nostri capi suggerirono, su invito dei comandi alleati, di tornare in famiglia a tutti quelli che fra noi ne avevano la possibilità, lasciando così a quelli che rimanevano le poche riserve alimentari rimaste.