Le mie prigioni

1945. Gli alleati avevano ormai occupato la Francia meridionale fino alle Alpi. Quasi giornalmente, probabilmente dall’aeroporto di Nizza, quando il tempo lo permetteva, uno o due cacciabombardieri americani venivano a farci visita, mitragliando tutto quello che si muoveva per le strade.
Un giorno che mi trovavo in piazza dell’Olmo a Boves con i soliti amici mi venne di seguire le evoluzioni di due caccia che passavano proprio sopra il paese. Ad un tratto uno di loro scivolò d’ala e cominciò a picchiare proprio verso di noi. Dopo un attimo di perplessità ci fu un fuggi fuggi generale. I più incoscienti rimasero sul posto finché non videro un oggetto cilindrico staccarsi dalla carlinga dell’aereo «bombardano!» gridarono e corsero a ripararsi dietro le case. Fortunatamente non era una bomba ma un contenitore di manifestini che si aprì in volo lasciando cadere una pioggia multicolore di pezzi di carta che invitavano i militari ad arrendersi alle truppe alleate. L’involucro, alquanto pesante, finì sul tetto di una casa a poche decine di metri dal mio giardino.

Un’altra volta ero in bicicletta nei pressi di Fontanelle quando uno di questi apparecchi mi passò tanto vicino che potei distinguere il pilota che salutai con un cenno della mano.
Un attimo dopo sentii un boato terribile. L’aereo aveva scaricato le sue armi di bordo nei pressi della casa di Berto Capello colpendo gravemente ad una gamba un operaio che stava lavorando accanto a un carro e mancando per un pelo la sorella di Berto che solo un attimo prima era sul balcone.
Questi aerei volavano tanto bassi che un giorno in cui mi trovavo sulla collina che divide Boves da Robilante ne vidi uno discendere la valle Vermenagna. Volava sotto di me e scendeva facendo tutte le curve della valle quasi fosse un’automobile. Arrivava così invisibile fino allo sbocco della pianura dove lo attendeva nei pressi di Borgo San Dalmazzo una mitragliera a quattro canne che spesse volte non faceva neanche in tempo a sparare.

La primavera era già nell’aria quando a me e a Mario Dalmasso viene offerta l’opportunità di lavorare come precari nel municipio di Boves. Il nostro compito non era ben chiaro, ricordo che facevamo degli elenchi di cui io non ho mai capito l’utilità. La neve era ormai scomparsa dalle strade e i campi si erano vestiti con la veste nuova del verde e del giallo dei trumbun e dei panebrus, (le primule) e del bianco dei bucaneve.
Una mattina fui svegliato dai richiami di mio fratello Ugo giù nel cortile. Era arrivato un messaggero con un biglietto in cui mi si chiedeva di organizzare il trasporto di un sacco di grano da Spinetta a Boves per conto della banda che era in Bisalta. Uscire dal paese non era facile, e vero che i tedeschi interferivano pochissimo con le nostre vite, ma avevano messo in paese un presidio fisso che aveva il compito di controllare tutti quelli che entravano e che uscivano.
Il drappello aveva sede nel palazzo delle scuole elementari ed era comandato da un ufficiale austriaco, non più giovanissimo, e da un sottufficiale sospettoso dal viso cattivo che si dice fosse stato un gaulaiter (una specie di capo della polizia) in tempo di pace. A fare da interprete avevano assunto Mariarosa che era un’ ebrea capitata a Boves con la famiglia dopo una penosa Odissea. I tedeschi non vennero mai a sapere la razza della ragazza che abitava nella casa di Liliana e Dante Pellegrino. I tedeschi avevano scavato una trincea in fondo a piazza Italia a difesa di un non molto probabile attacco dall’esterno del paese. Avevano poi piazzato posti di blocco sulle vie principali di accesso al paese per superare i quali occorreva avere un permesso speciale rilasciato dal loro ufficio al quale però ci si doveva presentare con un biglietto a firma del commissario prefettizio che indicava il motivo del viaggio.

Questi fogli prestampati venivano compilati in municipio e siccome il commissario, che nell’occasione era il dottor Donato Dutto, non era sempre disponibile, per non far perdere tempo alla gente ne firmava un certo numero in bianco e li teneva nella sua scrivania a disposizione di chi ne faceva richiesta. Noi stessi avevamo avuto occasione di compilarne più di uno. Tutta questa trafila sembrava a noi una semplice formalità, infatti fino allora non aveva mai dato luogo a incidenti. Mi misi quindi in contatto con Renzo, un ragazzo che abitava sulla via dei Cerati ai Pellegrin e che era stato in banda con noi a Roaschia. Gli chiesi se era disposto a svolgere il compito richiestoci. Renzo non fece obiezioni, così passammo in municipio per riempire il modulo richiesto per l’uscita dal paese.
Il caso volle che i fogli prefirmati fossero finiti e noi avevamo una certa fretta e non sapendo quando il commissario sarebbe rientrato, chiesi a Mario di firmare lui un modulo. Mario sapeva imitare la firma di Donato quasi alla perfezione e certamente i tedeschi non avrebbero notato la differenza, ma poi volli strafare e il mio errore fu fatale. Infatti conoscendo bene la Mariarosa pensai di guadagnare tempo affidando a lei il disbrigo delle formalità per procurare a Renzo il lasciapassare. Nel fare questo mi feci notare dal sottufficiale tedesco al quale non sfuggì la mia mossa e insospettito trattenne Renzo più del solito e gli fece un sacco di domande alle quali Renzo non era in grado di rispondere con sicurezza.

Impaziente come ero di mandare avanti la missione, mi affacciai una seconda volta negli uffici dei tedeschi e Mariarosa mi disse che erano sorte delle complicazioni. Tornai dunque municipio ma non passarono che pochi minuti dopo di che due tedeschi armati arrestarono me e il povero Mario e ci condussero nel palazzo delle scuole. Era successo che, in seguito alle incertezze di Renzo, era stato convocato nell’ufficio permessi il commissario Dutto, il quale, non so per quale motivo, non volle riconoscere come sua la firma.
Suppongo che preso così alla sprovvista abbia scelto la via migliore per lui, altrimenti avrebbe dovuto ammettere di non approfondire mai i motivi per cui concedeva i permessi. Questo aveva aggravato la mia posizione ma non capirò mai il perché arrestarono anche Mario visto che fino a quel momento nessuno sospettava che fosse stato lui a falsificare la firma. Nell’aula in cui venimmo confinati c’era un’ampia finestra che dava sulla piazza Italia dove c’erano già radunati parecchi ragazzi che guardavano in su incuriositi, tra questi c’era il mio fratellino Ugo al quale cercai di far capire con l’alfabeto muto che doveva fare sparire il biglietto che io avevo ricevuto quella mattina.
Ci interrogarono uno per volta, dopo di che ci separarono in aule diverse dove eravamo sorvegliati a vista da una sentinella. Il nostro problema principale era quello di non dare versioni differenti sul motivo del nostro interessamento nel far avere il permesso di uscita a Renzo. Così pensai di comunicare con Mario cantando, in questo modo riuscii, almeno con lui, a convenire una linea di condotta comune. Renzo non si era mai mosso dalla stanza dove ci interrogarono. Il momento peggiore fu quando il gaulaiter in persona venne nell’aula in cui mi trovavo, chiedendo mi dove avevo messo il biglietto che avevo ricevuto, Renzo ingenuamente si era lasciato sfuggire questa informazione.
Mi sentii perduto, allora, con una sceneggiata degna di un grande attore, mi misi a giurare e spergiurare su tutto quello che avevo di più caro al mondo che nessun biglietto era mai arrivato in mio possesso. Forse lo convinsi o forse no, sta di fatto che dopo un po’ l’argomento venne lasciato cadere. Durante il mio interrogatorio un notevole aiuto lo ebbi da Mariarosa che facendo da interprete, riuscì a correggere la mia deposizione ogni volta che cadevo in contraddizione.

Io cercai di far passare l’evento come un fatto di borsa nera, cosa allora non tollerabile ma di gravità minore che non l’accusa di appartenenza a banda armata. Tuttavia non riuscii affatto a convincere il gaulaiter che dopo un po’ ci caricò tutti e tre su una macchina e machine pistol alla mano ci tradusse al carcere di Cuneo, la famigerata Leutrum, dove ci consegnò a una brigata nera. Il sole stava calando e noi non avevamo mangiato niente. Un senso di timore di angoscia e mi prese quando, dopo averci registrato all’ufficio matricole e averci prese le impronte digitali, il secondino ci condusse nella nostra cella. Fu tutto un aprire e chiudere di cancelli fatti di grosse barre di ferro e quando entrammo nello stanzone che avrebbe dovuto ospitarci per i prossimi giorni, una miriade di occhi ci spiarono con curiosità attraverso le coperte che coprivano gli innumerevoli ospiti che già lo popolavano ed che erano ormai nelle brande per la notte. Un tale, non più tanto giovane, ci aiutò a preparare i nostri giacigli.
Mi infilai sotto la coperta a cercare quella pace che sempre arriva quando chiudi gli occhi, ma in prigione le lampade non si spegnevano mai e mi impedirono di abbandonarmi nel buio. Tuttavia, dato che ero sfinito, il sonno non tardò ad arrivare anche in quella situazione.
Al mattino seguente fummo svegliati dalla cerimonia del battiferro: due secondini aprirono la porta, uno rimase in attesa e l’altro con una barra di ferro percosse le inferriate delle finestre con uno stile che rifletteva bene la professionalità del musicista.
A questa operazione, che aveva lo scopo di controllare l’integrità delle grate, avremmo dovuto assistere due volte al giorno d’ora in avanti.

Intanto facemmo la conoscenza con gli altri ospiti che erano per lo più renitenti alla leva e uno, Beppe (il Grosso), un ragazzone alto e robusto, che disse di essere un partigiano in attesa del processo. Poi c’era quel tale che ci aveva dato il benvenuto la sera prima e che scoprimmo essere un vero comunista, di quelli che la resistenza al fascismo l’avevano fatta veramente quando noi gridavamo ancora «viva il Duce ». Era una persona straordinaria, si accollava tutte le mansioni più umili quali la preparazione del buiolo, che altro non era che una puzzolente tinozza dove, dietro un pietoso paravento, a turno ognuno di noi faceva i propri bisogni e che doveva essere vuotato tutte le mattine. Era sempre disposto inoltre a darti una parola di conforto o un suggerimento utile.
Il camerone dov’eravamo era piuttosto grande perché era servito per tenere la paglia, infatti era chiamato «la pagliera», quando il carcere non era così affollato e ora conteneva una ventina di prigionieri quasi tutti politici. Solo un paio erano delinquenti comuni che non si mischiavano con noi. Appena svegli dovevamo fare le brande disponendole con precisione secondo una regola che presto imparammo. Poi, a pagamento, potevamo avere una tazza di latte. Il cibo che ci veniva propinato una volta al giorno e consisteva in un minestrone annacquato che dovevamo trangugiare per mezzo di uno schifoso cucchiaio di legno. Per far passare il tempo si camminava in gruppo su e giù per la stanza cantando canzoni partigiane.

Per l’ora d’aria ci portavano nel piccolo cortile circondato da alte mura al centro del caseggiato. Lì si poteva dare qualche calcio a un simulacro di palla fatto di stracci o a scambiare qualche parola con gli altri prigionieri stando bene attenti a non lasciarsi andare a confidenze con sconosciuti. Altro passatempo molto utilizzato era il gioco da noi detto man cauda, che credo si traduca con «lo schiaffo del soldato». Quando era Beppe che colpiva, vi garantisco, lo si riconosceva subito. In carcere potevamo ricevere pacchi dall’esterno e le nostre madri si sono dissanguate per farci avere tutto ciò che di buono si poteva trovare al mercato nero.
L’unico che non riceveva mai pacchi era l’anziano comunista. Il giorno che ne arrivò uno da non so quale amico fece una cosa che mi commosse: divise ogni cosa con noi. Ricordo che vivevamo in una atmosfera di attesa, la paura non traspariva in mezzo a noi. Quello che mancavano erano le notizie dall’esterno, eravamo come sospesi nel vuoto, tutto poteva accadere, nel bene o nel male, ma sarebbe stata una cosa improvvisa e inaspettata. È pur vero che fra noi si facevano tutte le previsioni possibili, ma non si aveva nessuna certezza. Il pericolo maggiore poteva arrivare dall’esterno, una rappresaglia per vendicare un camerata ucciso poteva mettere a repentaglio le nostre vite.

Noi tre ci aspettavamo un interrogatorio da parte della polizia tedesca, perciò passavamo ore a ripassare la lezione, per essere sicuri di non dare adito ad altri sospetti in caso di contraddizioni.
Passarono così una decina di giorni, finalmente venne il momento di essere interrogati. Uno alla volta ci presentammo di fronte a due tedeschi della SD. Io fui l’ultimo a essere interrogato e sinceramente devo dire che non mi lasciarono neppure aprire bocca. Mi fecero assistere alla battitura a macchina di un verbale che più o meno diceva così: «se mi dicono che sono un partigiano io lo nego, se mi dicono che io ho fatto parte di bande armate io lo nego», e via su questo tono. Dopo di che mi fecero firmare il tutto e mi rimandavano in cella.
Non passò molto tempo che ci furono aperte le porte del carcere per essere consegnati ai fascisti che ci portarono in una scuola in via Barbaroux a Cuneo dove loro alloggiavano. Pensammo che ci avrebbero mandati in un campo di lavoro. Ma non fummo trattenuti a lungo nemmeno qui. Ormai la guerra volgeva al termine e nell’aria si sentiva già l’odore della fine. Anche i fascisti si erano ammorbiditi e penso che qualcuno aveva già cercato dei contatti con i nostri comandi per farsi dei meriti per la resa dei conti che sarebbe venuta presto.
Cosa sia successo realmente non so spiegarmelo, sta di fatto che fummo lasciati liberi, così che, prima di sera, potemmo raggiungere le nostre famiglie.