Oreste Agnese

Sto sfogliando il bel volume edito a cura del Municipio di Boves in occasione del trentennale dell’eccidio del 19 settembre 1943. Quanti volti di amici! Erio, Oreste, Beppe e altri ancora; ma la mia foto non c’è. Eppure eravamo così uniti nei nostri primi vent’anni, le nostre vite correvano parallele come su binari, lo, ho solo avuto più fortuna.
Leggo: Agnese Oreste, medaglia d’argento al valor militare [...]. Nel corso di un duro combattimento, sostenuto contro forze tedesche dotate di carri armati e di artiglierie [...] ecc. ecc. Ma sarà davvero lo stesso Oreste che conoscevo, questo eroe titanico? lo ricordo come fosse ieri il giorno in cui il povero amico venne ucciso.

Era una domenica di settembre. lo avevo avuto il permesso di fare una scappata a casa, perciò da Roaschia, dov’era la mia banda, scesi verso la strada Roccavione-Robilante; con un po’ di trepidazione attraversai quel tratto di piano dove ogni momento potevi incontrare una pattuglia di tedeschi o fascisti, e mi buttai sulle colline che portano al Pilone della Battaglia. Dall’altra parte si scendeva su Boves. Rammento che, data la stagione, passai per la vigna situata fra S. Antonio e S. Pietro: i fichi erano maturi e io ne gustai più d’uno. Poi piano piano, con estrema cautela dato che il paese era presidiato da un certo numero di tedeschi, raggiunsi casa mia. I miei erano sempre molto felici di vedermi, ma tremavano ogni volta che mi muovevo di casa. lo d’altra parte dovevo per forza uscire, era più forte di me. E poi il pericolo che mi succedesse qualcosa non era così grande: i tedeschi si limitavano a controllare la popolazione cercando di dare fastidio il meno possibile, e non è che girassero pronti a sparare. Non erano SS.
Era la mattina della domenica 17 settembre 1944 e io uscii per incontrare gli amici. In piazza venni a sapere che c’era stata una rapida incursione di fascisti, che si erano mossi da Cuneo in camion e avevano raggiunto di sorpresa Castellar. Al ritorno, passando in fondo a Piazza Nuova, avevano fatto vedere, come trofei, due fazzoletti rossi e avevano gridato verso la bottega del “Ciar”: “Abbiamo finalmente fatto fuori vostro figlio”, si trattava di Aldo, che militava nelle file dei garibaldini.

Solo nel pomeriggio sapemmo la verità. Erano veramente stati uccisi due partigiani, ma non si trattava di Aldo. Uno dei due era il mio amico Oreste; l’altro, Giuseppe Barale di Castellar, non lo conoscevo. Sul far della sera incontrai Piero Pellegrino, anche lui molto amico e vicino di casa di Oreste. Mi disse: “Andiamo a prendere il corpo con il carro dei pompieri, vuoi salire anche tu?”. Non mi feci pregare. Arrivammo in breve tempo a Castellar. Di fronte alla chiesa, sul pavimento di una casa che era già stata bruciata, giacevano due cadaveri.
Oreste era stato ucciso da un colpo di pistola sparato a distanza ravvicinata; l’espressione del suo viso era quella di chi si prepara a ricevere una botta in testa, un’espressione che ancora oggi mi perseguita, perché fissava in modo inequivocabile sul suo volto l’attimo prima di morire, quando ormai aveva capito il proprio destino.
Ecco come si erano svolti i fatti. Oreste aveva lasciato il suo distaccamento per recarsi a messa giù in paese. Tutto era apparentemente tranquillo, quando con gran strepito e del tutto inatteso arrivò il camion di fascisti. Mitragliatrice sul cofano, incominciarono subito a sparare provocando panico indescrivibile fra i devoti che assistevano alla messa.

Fu un fuggi fuggi generale, ma tra la gente che fuggiva spiccavano due fazzoletti rossi legati al collo di due “garibaldini”. Una prima raffica tolse la vita al Barale; Oreste, invece, venne ferito a una gamba, corse in salita su per la strada che porta a Fontana Cappa fin dove ora un cippo ricorda la sua resa, poi si accasciò sfinito. I fascisti lo mandarono a prendere da alcuni montanari del posto, non si fidavano ad avvicinarvisi, poteva forse ancora difendersi. Oreste disse loro: “Se mi portate giù, mi uccideranno”. “Se non ti portiamo, uccideranno noi”, fu la risposta.
Venne portato davanti al comandante degli incursori il quale freddamente, crudelmente lo finì con un colpo alla nuca. Caricammo i due corpi sulle panche del mezzo dei pompieri. La strada era sconnessa e i cadaveri ormai rigidi dei due poveri ragazzi rischiavano di cadere a ogni sobbalzo. Ci sedemmo al loro fianco per trattenerli. Poche centinaia di metri e poi il camion si fermò davanti a un casolare isolato: i parenti del Barale vennero a ritirare la salma del congiunto, quindi riprendemmo a scendere verso Boves.

Nella casa di Oreste s’erano già raggruppati amici e parenti. Come dimenticare lo strazio della mamma mentre lo accarezzava, lui disteso nel lettone e la gente attorno che mormorava son sempre i migliori che se ne vanno”. Ma com’è, bisogna forse morire per essere apprezzati? Allora io, che partigiano sono stato, sono forse indegno dell’attestato di partigiano combattente che mi è stato conferito alla fine della guerra? Chi lo può dire, io so solo con certezza che non ero molto diverso da questi miei amici decorati con la medaglia d’argento. Forse, se mi avessero fucilato quando per un sospetto mi relegarono nelle carceri di Cuneo, oggi sulla motivazione della mia medaglia si leggerebbe: “Arrestato per la sua attività partigiana, sottoposto a orrende torture, preferiva la morte con onore piuttosto di fare il nome dei suoi compagni di lotta”.
Torniamo al povero Oreste.
lo lo frequentavo sin dalle elementari e con lui imparai a sciare. Suo papà faceva il carradore, mestiere oggi quasi sconosciuto. Partiva dai tronchi d’albero e, alla fine, veniva fuori il barroccio. Era bello veder costruire quelle grandi ruote a raggi che finivano con un battistrada d’acciaio: era un anello che veniva infilato a caldo in modo che, raffreddandosi, si sarebbe stretto così bene intorno alla ruota che nessun sobbalzo l’avrebbe scalzato dalla propria sede. Si chiamava Mau d’la Miseria, tutto un programma, e un giorno decise di costruire un paio di sci per il figlio. Erano rozzi, tagliati direttamente dal tronco di un frassino, curva e tutto, ma a me parevano meravigliosi e glieli invidiavo di tutto cuore.

Oreste aveva un cugino, Maurizio, che era mio compagno di scuola. Nei pomeriggi d’inverno ci recavamo tutti e tre in un campo dietro la casa di Oreste, in una zona chiamata “La Reggia”. Lì c’era un prato in lieve declivio con neve quasi sempre gelata. Noi avevamo fatto con gli sci due tracce che percorrevamo in tutta la loro lunghezza. Il fondo delle tracce ghiacciava durante la notte e così, anche se la pendenza era lieve, noi riuscivamo, partendo dall’alto, ad arrivare fino in fondo. Perché dico noi? Semplice, perché in realtà sugli sci salivamo in tre: Oreste, il proprietario, era agli attacchi; Maurizio saliva in punta e io, dopo aver dato una leggera spinta, salivo sulle code. Spesse volte, a metà percorso, qualcuno perdeva l’equilibrio e così il gioco riprendeva dall’inizio.
Fu in quei giorni che nacque in me la passione per lo sci e ora, che misto avvicinando agli ottant’anni, la sento come allora e quando aggancio quei meravigliosi attrezzi agli scarponi, mi sento ancora un ragazzino.
Più tardi riuscii a farmi fare da “Mau” un paio di sci tutti miei, così potei competere con Oreste.
Finite le elementari andai a studiare a Torino e Oreste iniziò ad aiutare il padre nel duro lavoro di carradore, perciò le nostre strade si separarono. Ma sovente, durante la vacanze di Natale, ci ritrovavamo sui campetti di sci del paese. Oreste però non era soddisfatto del lavoro che faceva, sentiva come zavorra alle proprie aspirazioni la mancanza di cultura, perciò, con l’aiuto di Piero Pellegrino, aveva cominciato a studiare da autodidatta. Come si sa, in un paese come Boves ci si conosce un po’ tutti fin dall’infanzia, senza distinzione di classe: stesso asilo, stesse scuole elementari, stesse manifestazioni collettive. Immancabilmente, crescendo, si formano dei gruppi che hanno delle passioni-in comune per lo sci, per la montagna, per il calcio, per il pallone elastico, per la caccia alle ragazzine.

Nulla impedisce che uno possa avere degli interessi trasversali, per cui, di volta in volta, frequenta un gruppo o l’altro. Uno di questi gruppi era formato da studenti e Oreste ci teneva a farne parte. Dopo il disorientamento avvenuto in montagna a seguito dell’incendio di Boves del 19 settembre 1943, il gruppo studenti si organizzò per conto proprio e prese posizione in un casolare fra le vigne in zona. Oreste era con loro. Quando il progetto andò in fumo per cause ancora oggi ignote, tra gli studenti ci fu uno sbandamento totale e ognuno scelse la propria strada. Beppe Lerda ed Erio Baudino si misero con Vian, che li promosse ufficiali a motivo del loro titolo di studio. Come sappiamo, pochi giorni dopo, Erio, catturato in Valle Stura, viene fucilato a Cuneo. Arriviamo così ai giorni di fine anno 1943, quando una grossa formazione tedesca attacca i partigiani di Vian. lo scappo dal paese e raggiungo il ‘Tic’ e qui, tra gli amici del gruppo studenti, ritrovo anche Oreste.
Passato il pericolo, Oreste decide di recarsi a Saluzzo a lavorare alla TODT. Si trattava di una soluzione intermedia fra tornare in montagna e affrontare i rigori dell’inverno, oppure presentarsi sotto le armi del nuovo esercito “repubblichino”. La TODT (organizzazione tedesca per lavori di guerra) appaltava a ditte italiane lavori di vario genere, per lo più di manovalanza, e garantiva ai lavoratori la libertà di muoversi senza essere arrestati per renitenza alla leva. Alcuni giorni più tardi scelsi anch’io questa soluzione e ci ritrovammo ancora una volta vicini. Lui abitava da suo cugino Maurizio che lavorava da panettiere presso dei parenti, io ero in pensione dalla signora Pagliero e avevo alloggio presso lo stesso caseggiato.

Oreste lasciò la TODT poco prima di me. Ricordo di averlo incontrato a Boves, tutto fiero mi mostrava la pistola con cui, imprudentemente, girava armato. In quell’occasione mi disse che era ora che anch’io prendessi la decisione di salire in montagna. Com’è che era finito fra i garibaldini non lo so, non certo perché era comunista, nessuno di noi allora sapeva esattamente cosa quel nome significasse, tant’è che, ironia della sorte, chi in teoria avrebbe voluto rappresentare un ideale assolutamente ateo, finì per morire come un martire cristiano per non aver voluto rinunciare a quello che per noi allora era in comandamento divino: “Ricordati di santificare le feste”.