Persone speciali
Chi passando da S. Antonio avendo superato la dorsale del Pasturun scendesse verso Fontanelle, in una radura tra i boschi di castagni troverebbe sulla destra una casetta di campagna, molto rustica con fienile e stalla. Quella è la casa del «Vic». Durante la guerra ci abitavano sei donne, sei donne meravigliose.
La mamma, ormai di una certa età con pochi denti e poca voglia di parlare, e cinque figlie. Maria, la più anziana, poi Lucy grande lavoratrice, Pina l’intellettuale del gruppo fortemente handicappata nel camminare, probabilmente per la poliomielite, ma sempre sorridente ed ottimista. Piena d’arguzia e di buon senso.
Veniva poi Rita, la stella della famiglia, un po’ piccolina se questo può considerarsi un difetto nelle donne, ma con una carnagione di pesca e un viso d’angelo. Leggermente timida e con quel senso del pudore che la faceva arrossire ad ogni frase audace, ma che attirava le simpatie maschili come una calamita.
Annetta, la più giovane, era briosa e spumeggiante come la gazzosa, sempre pronta allo scherzo e alla risata. Io avevo visto qualche volta Rita in paese in compagnia di Fea, un ragazzo di Fontanelle che però non aveva nulla in comune con lei, e avevo notato la sua bellezza. Mai avrei immaginato allora che la sorte mi portasse così vicino a lei e per un tempo abbastanza lungo da poterne apprezzare tutto il buono che la natura le aveva donato.
Era l’alba dell’ultimo dell’anno 1943. Io mi crogiolavo nel calduccio del mio letto godendomi le vacanze di Natale, pur sapendo che non sarei partito per Torino in quanto la mia classe 1925 era appena stata chiamata alle armi dalla Repubblica di Salò. Tutt’un tratto arrivò trafelata la mia sorellina Luciana gridando: “Ci sono i tedeschi in piazza, Giulio scappa”.
Io non mi impressionai più di tanto, feci la mia solita toilette mattutina sempre sollecitato dalla sorellina che era stravolta dalla paura. Quando fui pronto salutai i miei e mi avviai verso la collina. Le strade erano deserte ed io non ci impiegai molto a raggiungere la salita di S. Antonio dove pensai di essere al sicuro. Non avevo nessuna idea di dove sarei andato, l’importante per ora era allontanarmi dal paese. Ero solo, attorno a me non sentivo alcun rumore.
Decisi di passare per le vigne, mi sentivo più protetto, così abbandonai la strada e continuai a salire. Lasciando la chiesa di S. Antonio alla mia sinistra raggiunsi il crinale e ricominciai a scendere dall’altra parte. Come mi venne in mente il «Vic» non saprei dirlo. Forse mi ricordai che era il posto dove i miei amici reduci dall’avventura del casotto saltato in aria, andavano a veglia in autunno quando poi successe il fattaccio.
Non ero mai stato sul posto, ma il mio istinto mi guidò e quando raggiunsi il casolare fu un sollievo scoprire che, prima di me, erano arrivati degli amici, ed altri ne sarebbero arrivati nelle ore successive. Trovai Mario Martini, Carmelino Manduca, Ezio Pellegrino, Oreste Agnese e altri ancora, ma soprattutto trovai delle ragazze per nulla spaventate e gioiose di ospitarci.
Non mi conoscevano personalmente ma mi fecero sentire subito come uno di casa e, nei giorni che seguirono, nonostante la tragedia che si svolgeva a pochi passi da noi, furono ospiti generose, gentili e ci lasciarono l’impressione che fossimo noi a gratificarle. Intanto le truppe tedesche avevano iniziato l’attacco alle posizioni partigiane che difendevano la Valle Colla al comando di Ignazio Vian.
A Boves, il mio vicino di casa Carlo Cavallera («et Camilla»), reduce dal tentativo di Franco Ravinale di tenere Vinadio, si recava dall’amico Giulio Tulé che abitava in Piazza dell’Olmo davanti alla chiesa, per decidere assieme dove andarsi a nascondere. I famigliari di Giulio, molto devoti, pensavano che il miglior rifugio potesse essere la parrocchia e lì li indirizzarono.
Dopo un po’ però i due ragazzi si stancarono di stare fermi al buio delle navate senza sapere cosa stesse succedendo fuori, così decisero di salire sul campanile. Questa decisione segnò la loro sorte. I tedeschi tenevano d’occhio la torre campanaria e subito pensarono di avere a che fare con delle vedette partigiane. Li trascinarono giù e li uccisero nella piazza grande (questo fatto ci racconta come il caso giocava pro o contro ogni decisione che si prendeva in quei momenti ).
Noi ai «Vic» non venimmo disturbati, anche se passammo quattro giorni d’ansia: ogni rumore, ogni notizia ci faceva sussultare.
Presto vedemmo scendere dalle colline più alte i primi sbandati partigiani: Attilio Cometto e Angelo Peano («Maurin»). La resistenza era durata ben poco. La notizia di una casa che bruciava a Boves attirò la nostra attenzione ed in molti ci affacciammo sul costone che da sopra la casa del «Vic» ci permetteva di vedere perfettamente il paese.
Ma ci videro anche i tedeschi, che indirizzarono alla nostra volta alcune raffiche di mitragliatrice. Fu una fuga generale giù per il bosco e più tardi imprecammo contro la nostra imprudenza che rischiava di mettere la zona nell’obiettivo del rastrellamento. Fortunatamente non successe niente del genere, solo, una sera, arrivarono notizie che si erano viste truppe tedesche a Fontanelle. Molto tempo dopo venimmo a sapere che erano partigiani della Val Grana che erano venuti con l’intenzione di dar man forte ai partigiani bovesani, ma messi al corrente che la resistenza era cessata, se ne ritornarono ai loro distaccamenti.
Il rastrellamento da parte tedesca durò ben quattro giorni e con l’occasione impiegarono anche un aereo. Noi passavamo le giornate nel timore parlando molto spesso della morte e dell’anima. Ci dava un po’ di serenità l’allegria e la fiducia che incutevano in noi le brave donnine che mai dimostrarono il minimo cenno di paura, continuando il loro modesto lavoro tranquillamente come se attorno a noi non succedesse niente.
Alla sera, dopo una lunga e simpatica veglia nella stalla, si andava a dormire, loro nei loro freddi letti e noi sul mucchio di fieno a lato dell’unica mucca che ci manteneva meravigliosamente caldi.
Pur essendo pieno inverno, l’esposizione della casa era tale che con il sole pareva d’essere in primavera, così quando ce lo chiedevano andavamo anche noi per i prati a fare qualche piccolo lavoro.
Tutto andò bene, nessuno ci disturbò per tutto il tempo dell’azione tedesca. Ritornata la calma in paese, il gruppo incominciò a sfoltirsi. Ezio fu il primo a presentarsi sotto le armi della Repubblica di Salò. Anche Mario decise di abbandonare la lotta. Aveva rischiato e temuto di morire più di una volta. Non ce la faceva più. Pochi giorni prima, quando era con i partigiani della Val Stura, aveva partecipato a un colpo di mano all’aeroporto di Levaldigi. Mi raccontò che mentre i suoi compagni caricavano i fusti di benzina sul camion, lui con altri due era stato incaricato di fare un posto di blocco sulla strada di comunicazione principale.
Sfortuna volle che arrivassero alcuni tedeschi. I nostri li fermarono e dopo averli disarmati li fecero rimanere davanti a loro con le mani in alto. Ma ecco che improvvisamente sopraggiunse un’altra pattuglia di militari germanici. Incoraggiati dall’arrivo dei loro camerati, i prigionieri si lanciarono sui partigiani cercando di strappar loro le armi.
Uno dei nostri roteava in aria una bomba a mano tedesca (di quelle con il manico), il che poté contribuire allo sganciamento del gruppo. Mario mi raccontò che corse a perdifiato verso il camion giusto in tempo, quando già nei suoi polmoni non entrava più aria. Purtroppo uno dei tre, Battistino Ramero, non ebbe questa fortuna: ferito dal fuoco tedesco, si nascose in una cascina; scoperto, fu ucciso impiccato a un uncino.
Partito Mario per presentarsi al distretto; partito Oreste per andare a lavorare alla TODT di Saluzzo; partito Carmelino, io rimasi solo.
Mi trovavo così bene che non mi veniva di pensare al futuro, e poi c’era Rita che mi dimostrava un po’ di simpatia e io le facevo una corte sempre più stringente. Ma ecco che un bel giorno arriva al «Vic» mio padre. Era stato carabiniere e aveva anche visto la guerra ’15-’18, ma ora che si trattava di suo figlio in pericolo aveva perso tutto il suo coraggio.
Quasi piangendo mi invitò a fare qualcosa, anche se lui non sapeva cosa consigliarmi perché temeva di indirizzarmi nella direzione sbagliata. Se ciò fosse accaduto, ne sarebbe morto di dolore. Io cercai di rincuorarlo scherzandoci sopra, ma poi presi anch’io la mia decisione: lasciai con grande nostalgia quell’angolo di paradiso e andai a lavorare a Saluzzo con Oreste.
Mai potrò dimenticare l’ospitalità ricevuta da quelle generose creature. Un unico rimpianto: non averle mai ringraziate abbastanza a guerra finita. Spero con questo ricordo di rendere giustizia al loro coraggio e al loro altruismo. Dio le benedica sempre.