Tolone 1943

1943, estate. Sotto il governo Badoglio, un numero imprecisato di giovani (qualche centinaio) della classe 1925 vennero reclutati con regolare cartolina di precetto, nella sola provincia di Cuneo, per essere inviati sulla costa francese di Tolone a scavare bunker per la difesa antisbarco. A guerra finita si seppe che il reclutamento non era autorizzato e che era servito solo ad aziende italiane per procurarsi la manodopera allo scopo di far fronte ai loro appalti. In realtà nessuno parlò mai ufficialmente della cosa. Nel 1945 ci venne corrisposta un piccola somma in quanto eravamo considerati dei militarizzati, ma subito dopo ce ne fu richiesta la restituzione sostenendosi che noi eravamo lavoratori volontari.
L’8 settembre 1943 ci trovò abbandonati da tutti in quel di Tolone e fu solo dovuto al coraggio e all’incoscienza dei 18 anni, se la maggior parte di noi riuscì prima o poi a raggiungere l’Italia.
Alcuni, sulla via del ritorno, vennero presi a schioppettate dai tedeschi; altri, fatti prigionieri, finirono a lavorare in Germania e là rimasero fino al termine della guerra. Fortunatamente nessuno parlò di vittime ed è forse per questo che tutto passò nel dimenticatoio. Ma siccome quest’avventura interessò molti cittadini del Cuneese, vorrei ricordarla raccontandola alla luce della mia esperienza personale.

Estate 1943. Sembra impossibile che tante cose siano successe in così poco tempo. Io studiavo a Torino all’Istituto tecnico per periti industriali e l’inverno era stato terribile per via dei bombardamenti aerei. Per questo motivo l’anno scolastico era finito un po’ prima del dovuto ed io me n’ero ritornato in famiglia a Boves.
Era la mattina del 26 luglio quando mia mamma mi svegliò dicendomi che il fascismo era caduto.
Boves era allora piena di soldati, specialmente artiglieri alpini e guardie alla frontiera.Venne annunciato il coprifuoco ed il divieto di assembramento, il che voleva dire che non si poteva stare in compagnia in più di tre persone. A noi la cosa sembrava ridicola e continuavamo a passeggiare per la piazza numerosi come al solito. Una ronda di militari particolarmente ligi al dovere ci arrestò in due o tre e ci accompagnò alla caserma dei carabinieri. Più tardi, avvertiti, giunsero i nostri genitori con le lacrime agli occhi, a chiedere la nostra liberazione. A noi tutto pareva così assurdo. Pochi giorni dopo, a Elio Brignone e a Maurizio Agnese arrivarono le cartoline rosa con le quali si ordinava loro di presentarsi alla caserma Leutrum di Cuneo.

La classe del 1925 non era ancora stata chiamata alle armi: cosa significava questo reclutamento?
Venimmo a sapere che erano stati chiamati per eseguire lavori di guerra e che sarebbero stati mandati da qualche parte fuori d’Italia, forse in Grecia. Li invidiai moltissimo, perché a quell’epoca ben pochi di noi potevano dire di aver fatto un viaggio all’estero, ed ora se ne presentava l’occasione di farlo a spese del governo.
Passarono pochi giorni e con mia grande gioia la cartolina giunse pure a me, a Mario Dalmasso, a Roberto Capello ed a Franco Artusio, alcuni dei miei più cari amici.
Intanto il primo scaglione era già partito diretto in Francia e noi andammo a prendere il loro posto sugli sporchi pagliericci della caserma Leutrum.

Era piena estate ed il caldo esaltava l’inconveniente dell’odore di piedi sudati di decine di ragazzi, allungati su della paglia buttata in terra in uno stanzone privo di areazione.
Era impossibile entrare in quella stalla; perciò, con i miei amici, cercai un posto in cortile dove almeno l’aria era respirabile. Io, fedele alla legge dell’arrangiarsi, cercai di impossessarmi di un pagliericcio che trovai in una camerata deserta, ma fui sorpreso da un graduato che non trovò di meglio che rinchiudermi nella prigione della caserma. Avevo risolto il problema della notte; peccato che il tavolaccio brulicasse di cimici, cosicché il giorno dopo mi trovai gli avambracci pieni di morsicature.
In qualche modo la notte passò ed al mattino, inquadrati come un gregge di emigranti malvestiti e puzzolenti, ci accompagnarono alla stazione vecchia di Cuneo dove salimmo su una tradotta di carri bestiame.
Partiti con una pagnotta ed una scatoletta di carne, viaggiammo tutta la notte transitando a Fossano, Savona, Ventimiglia. In quest’ultima stazione rimanemmo fermi per delle ore senza sapere il perché; ricevemmo un’altra scatoletta ed un’altra pagnotta e ci lasciarono bighellonare a piacere.

Nel tardo pomeriggio giunse l’ordine di partenza e subito fummo alla frontiera. Lasciavamo per la prima volta l’Italia e per la prima volta vedevo le meraviglie di Monaco e Montecarlo. Mi pareva di sognare, non avevo mai visto niente di più bello.
A St. Raphael il treno fece una lunga fermata. Mentre già calavano le prime ombre della sera. Disceso, camminai lungo il convoglio finché mi imbattei in un giovane ufficiale, il quale mi disse che la prima carrozza dietro la locomotiva - un vagone passeggeri adibito al trasporto ufficiali - si era svuotata e, se volevamo, avremmo potuto approfittarne. In gran segreto, per evitare la concorrenza, informai i miei amici dell’opportunità che ci veniva concessa cosicché, zitti zitti con i nostri bagagli, ci trasferimmo in un vero scompartimento con tanto di sedili e rastrelliere porta-valigia. Credo che nessun viaggiatore di wagon-lit di prima classe sia mai stato più felice di noi, anche perché, per quanto possa apparire incredibile, da St. Raphael a Tolone il treno impiegò tutta la notte e solo l’indomani mattina mettemmo piede a terra in quest’ultima stazione.
La solita colonna di disperati, trascinando i pochi bagagli, camminò inquadrata per le vie della cittadina fino all’Arsenale, dove ci sistemarono in un capannone parzialmente adibito a magazzino. La solita paglia indicava dove avremmo dormito.
Il reparto di fanteria che presidiava l’Arsenale ci prese in carico ed alcuni ufficialetti ci inquadrarono per la distribuzione di una coperta, un telo da tenda, una gavetta con le posate. All’ora del pranzo ci incolonnammo con i soldati e ricevemmo la nostra razione di minestrone.

Il tempo era splendido e l’aria profumava di mare. L’ordine era di non muoverci, ma trovammo subito il modo di scavalcare il muro di cinta per andare a scoprire la città che, essendo un porto di mare, nascondeva ad ogni angolo una sorpresa.
Quanti giorni rimanemmo in quella specie di caserma non me lo ricordo, furono certamente pochi, ma trovammo il tempo per fare tante cose. Un giorno decidemmo di andare a fare un bagno in mare. Alcuni francesi ci consigliavano di allontanarci il più possibile dal porto dove l’acqua era inquinata di petrolio fino all’inverosimile, visto che non era passato molto tempo da quando la flotta francese all’ancora si era autoaffondata per non cadere nelle nostre mani. Andammo in tram lungo la costa, finché trovammo una bella spiaggia e l’acqua pareva trasparente. Ci tuffammo con gioia e nuotammo per un po’, ma fuori dell’acqua ci accorgemmo che eravamo pieni di macchie nerastre: la nafta era arrivata anche lì e non fu facile farla andar via dai nostri corpi.
Una sera uscimmo con Attilio Donadio di Cuneo, che aveva la passione per la musica jazz, e passammo alcune ore in un caffè dove un’orchestrina allietava una misera clientela composta, per lo più di militari. Sembrava di essere in villeggiatura.
Poi, una mattina, ci caricarono tutti su alcuni camion e ci trasportarono sulla costa dall’altra parte della penisola che chiude a sud il porto di Tolone. Il posto era bello, pieno di vigne, alberi di fichi ed il mare a portata di mano. Ci ordinarono di piantare le tende e di accamparci in attesa di ordini. Con i soliti amici, Franco Artusio, Berto Capello e Mario Dalmasso, abbottonammo i nostri teli e rizzammo una bellissima tenda mimetica. Con un po’ di foglie riempimmo la fodera del pagliericcio, dopo di che ci preoccupammo di riempirci anche il pancino con qualche fico, visto che nessuno si era ricordato di farci avere il rancio. Nel pomeriggio, noi quattro soli scendemmo in una caletta meravigliosa dove facemmo un bellissimo bagno: l’acqua era così trasparente che si vedeva il fondo a 4-5 metri sotto di noi e pareva di volare, tanto che Franco e Mario si spaventarono ed ebbero bisogno del mio appoggio per tornare a riva.
L’indomani venne l’ordine di smontare le tende prepararsi a partire. Adunata nei pressi di una cascina vicino alle vigne. La giornata trascorse senza che nessuno si facesse vivo e, come incominciò a rabbuiarsi, i comandanti ci dissero di trovare un posto per passare la notte. Era ormai troppo tardi per montare le tende, così ci coricammo in una vigna usando il telo da tenda come coperta.
Il giorno seguente arrivarono finalmente a prenderci alcuni camion. Destinazione “Les Sablettes”, subito dopo Pas du Loup frazione di La Seyne. In quel posto l’acqua del porto è divisa dal mare aperto da una striscia di terra poco più ampia di una strada, alla fine della quale c’è un promontorio con un forte che sorveglia l’ingresso del porto di Tolone. Ci accampammo in una pineta che declinava verso il mare, in attesa di nuove disposizioni.
Trascorsero un paio di giorni durante i quali ricevemmo un rancio al giorno (disgustoso) a ore incerte. Per fortuna uva e fichi non mancavano. Al mattino del terzo giorno venne formata una squadra a caso, di cui faceva parte l’amico Mario; armati di picconi e pale si avviarono verso la cima della collina dove eravamo accampati. Lo rivedemmo la sera, sporco di terra e con una lente degli occhiali rotta: era disperato.

Più tardi, passeggiando sul lungomare, incontrammo un tale che ci chiese se sapevamo disegnare. Io e Franco ci facemmo avanti e questi ne prese nota. Mario chiese se servivano altri specialisti, offrendosi come cuoco; anche lui finì nella lista.
Il mattino seguente ci caricarono su un camion e ci riportarono a Tolone, stavolta però in una bella villetta su in collina dove aveva sede il Genio Militare per la Regia Marina, sigla: MARIGEMINIL. La villa era bella ma non c’erano letti, per cui, per alcune notti, fummo costretti a dormire sul nudo pavimento dove avevamo steso i nostri teli da tenda. Poi arrivarono dei letti a castello in legno e solo dopo molti giorni potemmo riempire i nostri pagliericci. Intanto pensavamo a Berto rimasto solo al campeggio ed allora, a Mario, venne l’idea di chiedere un aiuto-cuoco ed indicò il nostro amico come candidato: la richiesta fu accolta e Berto si riunì a noi.
Dalla fanteria eravamo passati in marina e questo voleva dire pasti decenti cucinati magistralmente da Mario. Assieme alle derrate alimentari avevamo pure il vino e 15 sigarette al giorno delle marche più prestigiose: “Africa”, “Serraglio”, “Macedonia Extra”. Ai francesi piacevano le nostre “Africa”, così, facendo un po’ di borsa nera, incominciammo ad avere qualche franco in tasca.
Intanto le giornate passavano intense e piacevoli, nel tempo libero scrivevo lettere su lettere usando moduli di posta in franchigia che ci venivano forniti senza restrizione. Io e Franco avevamo un tavolo da lavoro in un ufficio, ma il graduato che doveva guidarci non aveva molto da farci disegnare ed allora, ogni volta che si presentava l’occasione, andavamo in “missione” sui camion “126” che facevano servizi vari. Di solito si trattava di prendere o portare qualche materiale, niente di faticoso, e con l’occasione facevamo un po’ di turismo attorno a Tolone. In una di quelle passeggiate andammo a Yères ed in un’altra a Brignoles. Per la strada ci fermavamo a raccogliere un po’ d’uva nei vigneti che circondavano le strade. Passando in città incontravamo spesso i marò della San Marco che marciando cantavano in coro a due voci l’inno dello sciatore, ed erano belli a vedersi e piacevoli a sentirsi.
Un giorno incrociammo un camion sul quale erano due paesani di Boves partiti col primo scaglione. Erano sporchi e infelici, ed il loro lavoro pesante. Il gruppo cui appartenevano era dislocato sulla costa tra Tolone e Marsiglia.
Una volta capitammo dentro l’arsenale di Tolone, dove avevamo dormito qualche notte per terra sulla paglia stesa in un capannone che conteneva merce varia. Ci comandava Jachino, un marinaio che viveva con noi nella villa e le cui funzioni mi sono rimaste sconosciute. Era sempre profumato e impomatato e noi che lo vedevamo uscire tutte le sere pensavamo che avesse molte amanti. Quella volta dovevamo caricare dei rotoli di filo spinato ed entrammo baldanzosi nello stanzone con una carriola a testa. Non vi dico come rimanemmo quando, all’uscita, ci trovammo le gambe (portavamo i pantaloncini corti) piene di pulci. Il secondo viaggio lo facemmo di corsa, ma non ne ebbimo alcun giovamento. Jachino era rimasto fuori e ci incitava a non far caso agli insetti, ma quando cominciarono a morsicare pure lui, allora si spogliò quasi nudo e si tuffò sotto un getto d’acqua. In fondo erano pulci italiane e non avevano il diritto di approfittare di noi!

Nel frattempo il numero degli ospiti della villa era aumentato e alcuni di essi erano di Cuneo città. Uno lo chiamavamo “Sastu”, forse a motivo di un suo intercalare piemontese; c’era poi Attilio Donadio con il suo clarinetto (che più tardi lo avrebbe reso famoso, dall’orchestra “Daina” in poi): alla sera, seduto sulla branda, improvvisava pezzi di jazz.
Un pomeriggio pieno di sole, ero in cortile con alcuni di noi quando mi sentii chiamare al di là del muro che divideva la villa da quella vicina: “Italien, Italien, écoute, l’Italie a demandé l’armistice!”. Cosa pensammo in quel momento era difficile a dirsi… caso strano, il colonnello che ci comandava era partito in licenza in Italia da un paio di giorni. I giovani ufficiali che ci comandavano non sapevano che pesci pigliare: cercavano di mettersi in contatto con il forte La Margue, e ad un tratto si sentirono rispondere in tedesco. I più avventurosi del nostro gruppo decisero di partire la notte stessa per l’Italia, alcuni si riempirono le tasche di bombe a mano che ancora oggi mi chiedo dove avessero trovato…seppi poi che se ne erano sbarazzati al più presto, appena furono per strada.
Insieme sarebbe stato facile raggiungere la frontiera quella notte stessa, se solo fossimo stati un po’ più furbi, perché nel cortile c’era la macchina del colonnello col pieno di benzina e l’autista era uno di noi. Ma perdemmo l’occasione.
Il giorno dopo, Mario ed io ci impadronimmo delle pistole “Beretta” dei nostri ufficiali, tenute nascoste in un ripostiglio che Mario aveva scoperto. Perché le prendemmo? Probabilmente perché per noi erano dei giocattoli.
Nella successiva giornata del 9 settembre se ne andarono tutti e nella villa rimasero soltanto, con me, Mario, Berto e Franco. Avevamo ancora la dispensa ben fornita e così aspettavamo gli eventi. Ci sentivamo però molto soli ed era necessario prendere una decisione. Tutti d’accordo decidemmo di tentare di servirci del treno per arrivare fino a Nizza, dopo avremmo cercato di attraversare la frontiera in qualche modo. Era il tardo pomeriggio quando con i nostri pochi bagagli raggiungemmo la stazione di Tolone. Berto e Franco si fermarono dietro un muretto, mentre io e Mario ci avviammo verso l’entrata. Un tedesco di sentinella ci notò subito e ci invitò a raggiungerlo, noi allora, farfugliando un po’ di francese, gli demmo ad intendere che avevamo lasciato indietro i bagagli e che dovevamo riprenderli. Senza obiezioni il tedesco ci lasciò andare, così che potemmo ricongiungerci ai nostri amici. Tutti insieme ci infilammo in un piccolo ristorante dove ordinammo un misero pasto a base di verdure, aspettando che venisse buio; dopo di che, non visti, ce ne ritornammo nella nostra accogliente villa.
L’indomani prendemmo un’altra decisione: ci imbarcammo sul traghetto nel porto di Tolone con i nostri bagagli, le nostre pistole in tasca, un sacchetto di maccheroni ed una fetta di lardo, per raggiungere il negozio di Maté du Filu, bovesano emigrato in Francia, che aveva il negozio a Pas du Loup, pochi passi da La Seyne. Maté ci accolse benevolmente e ci sistemò tutti e quattro in una stanza a dormire. Sfortunatamente un letto era piuttosto corto e questo fu motivo di gravi discussioni su chi doveva usarlo. Si decise di fare a turno.

Passarono tre o quattro giorni e noi vivevamo felici nella nostra incoscienza, senza che neanche ci sfiorasse il pensiero che potevamo essere di peso alla famiglia che ci ospitava. Maté però non era uno stupido e, senza farcelo pesare, ci trovò un lavoro presso l’organizzazione tedesca della TODT di La Seyne e addirittura prese in affitto per noi due stanze in una casa vicino al porto. Ringraziammo e ci trasferimmo subito al nuovo domicilio. Le pistole le avevamo nascoste in un piccolo gabinetto nel cortile, e lì le lasciammo.
Il primo giorno di lavoro ci trovò allineati in fila con un folto gruppo di francesi; quando arrivò il nostro turno ci classificarono manovali e ci misero a scaricare sacchi di cemento dai camion in arrivo. Consumammo i pasti nelle mense allestite dalla TODT ed alla sera ci ritirammo nelle nostre due stanzette.
L’indomani, quando ci presentammo al lavoro, ci chiesero quali mansioni avessimo svolto il giorno prima: io fui pronto a rispondere “charpentier”, considerando che tutto sommato i lavori di falegnameria mi sembravano più leggeri. “Là-bas”, mi fu indicato; anche i miei amici tentarono di farsi passare per carpentieri, ma fallirono e furono rimandati a scaricar cemento ed a spingere vagoncini di calcestruzzo.
Anche il secondo giorno di lavoro finì tranquillamente. Io avevo trovato il modo di imboscarmi presso il fabbro, un italiano taciturno che mi aveva accettato senza obiezione come manovratore della ventola a manovella.
Il terzo fu il giorno delle “decisioni irrevocabili”.

Avevamo già visto, nei giorni precedenti, lunghe file di soldati italiani disarmati e con le divise in disordine, passare accompagnati da pochi militari tedeschi con la machine pistol a tracolla. Venivano portati come pecorelle smarrite nei luoghi di raduno. In uno di questi furono condotti i miei tre amici assieme ad altri lavoratori, per scaricare camion di cemento proprio all’interno del recinto. Durante il poco tempo libero che rimaneva loro, tra lo scarico di un camion ed il successivo, ebbero modo di parlare con i soldati prigionieri i quali, per il momento, se ne stavano benone: avevano da mangiare, da fumare e, soprattutto, non dovevano lavorare. Attratti da questa situazione, i miei amici decisero di dare i tesserini di riconoscimento della TODT ad alcuni militari che approfittarono dell’occasione per uscire dal campo di concentramento. Solo più tardi si lasciarono convincere da qualcuno che aveva più giudizio di loro, e così se ne uscirono dal recinto senza che le sentinelle tedesche mettessero in dubbio la loro appartenenza alla TODT. Quella sera io ero in pensiero per loro: era già buio quando arrivarono, vestivano delle casacche da marinai ed avevano cemento sino alla radice dei capelli; si lavarono con l’acqua del pozzo e giurarono che mai più sarebbero andati a fare un lavoro così faticoso.

Il giorno dopo io andai regolarmente a lavorare, ma loro non accennarono ad alzarsi. A mezzogiorno, pensandoli affamati, mi feci riempire una gavetta di minestra e mi recai a casa. Qui c’era un’atmosfera di grande euforia, snobbarono la mia brodaglia e mi mostrarono gli sfilatini di pane ed il tonno che avevano comperato, non solo, ma avevano trovato il modo di aprire la mia valigia e, con grande avidità, avevano intaccato la mia scorta di sigarette. Io ero allibito, così loro mi spiegarono che in mattinata avevano incontrato un italo-francese nostro paesano, al quale avevano fatto presente la nostra situazione ed il loro proposito di darsi prigionieri; al che il signore (che probabilmente apparteneva a qualche organizzazione della resistenza francese) aveva detto che piuttosto ci avrebbe aiutato a tornare in patria. Lui ci avrebbe procurato delle guide, noi dovevamo trovare i soldi per pagarle. Intanto aveva dato loro una piccola somma di denaro, con la quale avevano comperato una tessera del pane e del companatico. “Ma voi siete matti – dissi loro – dove volete che li troviamo i soldi da dare alle guide?” “Non ti devi preoccupare – mi disse Mario – io ho dei parenti non lontano da Tolone, sono certo che faranno di tutto per aiutarci”.
Fu così che l’indomani, io e Mario ci accingemmo a partire alla volta di Marsiglia. Per rendermi più presentabile, Franco mi prestò la sua giacca pied de poule bianconera che io gli invidiavo tantissimo. In tasca avevamo i pochi franchi ancora disponibili. Com’è che arrivammo a Marsiglia solo nel tardo pomeriggio, me lo domando ancora adesso, sta di fatto che quando arrivammo in Rue St. Pierre (è strano come certe cose rimangano nella memoria) era già buio e, allorché bussammo alla porta della casa che presumevamo appartenesse ai parenti di Mario, nessuno ci venne ad aprire, ma una voce dall’interno ci chiese chi cercavamo. Avutone risposta, la voce ci disse che il signor Dalmasso non abitava più lì da molto tempo, pareva si fosse trasferito al nord. Mario non si scoraggiò, mi disse che aveva altri parenti a Frejus e che l’indomani saremmo andati da loro. Lasciammo la buia Rue St. Pierre e, per strade desolate, raggiungemmo il centro dove trovammo un modesto albergo per passare la notte.
Il giorno seguente, credo fosse la domenica 19 settembre (in quella data Boves conobbe la dura mano dei tedeschi), ripartimmo alla volta di Frejus, piccola cittadina subito dopo St. Raphael, diventata famosa nel dopoguerra per essere stata travolta dall’acqua di una diga che era crollata). Scesi dal treno chiedemmo se qualcuno era in grado di indicarci dove abitava la vedova Dalmasso (non avevamo l’indirizzo). A furia di chiedere ci dissero che la signora s’era trasferita in un paesino dell’entroterra, a circa dieci chilometri da Frejus. Che dovevamo fare? Eravamo in ballo, la giornata era bella, eravamo ottimisti. Infilammo una strada di campagna e via, andare. Ricordo ancora che sopra di noi alcuni Stukas si esercitavano a fare delle picchiate ed il loro sibilo giungeva fino a noi.

Finalmente, verso mezzogiorno, arrivammo ad un isolato casolare di campagna dove in effetti abitava una vedova Dalmasso: non era la zia di Mario, ma la nuora, a sua volta pure lei già vedova. Chiarito l’equivoco, fummo cordialmente rifocillati, dopo di che ci fu dato l’indirizzo della vedova che cercavamo e che in effetti viveva a Frejus. Salutammo ringraziando per l’ospitalità e allegramente rifacemmo la strada in senso inverso.
Non ci fu difficile trovare l’abitazione che cercavamo, doveva essere stato un negozio da ciclista, ma la povertà attuale era evidente. La zia fu felice di conoscere Mario ed io rimasi in disparte, poiché non avevo motivo di partecipare alle effusioni. Più tardi Mario mi raggiunse dicendomi che non se l’era sentita di chiedere un prestito, a motivo delle evidenti condizioni di miseria dei suoi parenti; ed aggiunse che si era preso l’arbitrio di regalar loro l’ultima scatoletta di carne che ci eravamo portati dietro per scorta. Quindi riprendemmo il treno per Tolone ed arrivammo quando era già buio.
Al di là di tutto, quell’odissea mi lasciò all’ultimo momento un dolce ricordo. Ero in piedi nel corridoio affollato della carrozza, vicino a me venne a sistemarsi una ragazza giovane di cui non ricordo nulla; so solo che ci scambiammo baci appassionati fino a quando dovetti lasciarla. Mi disse di essere spagnola. Appoggiandosi alla mia spalla mi lasciò stampato il segno vermiglio di due labbra cariche di rossetto. Franco mi rimproverò allegramente per questo e la mia fama di dongiovanni si accrebbe notevolmente.

Nonostante il fallimento della nostra spedizione, il giorno successivo eravamo partiti tutti e quattro alla volta di Marsiglia accompagnati da una guida. I nostri amici ci avevano anticipato i soldi, con l’impegno da parte nostra di restituirli alla fine della guerra (cosa che avvenne regolarmente quando Maté du Filu arrivò a Boves per recuperare il prestito). Gli accordi presi con la guida prevedevano un anticipo alla partenza ed il saldo al suo ritorno, recando un biglietto da noi firmato col quale dichiaravamo di essere giunti a destinazione. A Marsiglia cambiammo treno e, nella notte, raggiungemmo Gap dove, scesi dal convoglio, attendemmo che facesse giorno, ammucchiati con altri passeggeri in un’ampia sala d’aspetto.
Con un’ansia che si poteva toccare, salimmo su una corriera diretto a Barcellonette, mentre all’uscita della stazione alcuni militari tedeschi che non avevano per niente l’aria bellicosa, ci guardavano disinteressatamente. Il viaggio in corriera sarebbe durato tutto il giorno e la paura maggiore era di trovare un posto di blocco germanico, nel qual caso, avvertiti in tempo, saremmo dovuti scendere dall’autobus e andarlo a riprendere più a valle, passando per strade secondarie. Notai subito che sul veicolo regnava un silenzio preoccupante, salvo il pianto di un bambino in braccio alla madre che ci toccava i nervi tesi come corde. Solo più tardi mi resi conto che non eravamo i soli fuggiaschi su quel bus, ma quasi tutti i passeggeri erano soldati e marinai italiani che, come noi, cercavano una via di scampo.
A Barcellonette ci toccò un’altra sosta angosciosa, e faceva già buio quando una diversa corriera ci portò verso i primi tornanti del Colle della Maddalena. Alla fermata di Jozière ci fecero scendere quasi tutti (saremmo stati una trentina) e, al buio, ci infilarono in una stalla, dove sentivamo che c’erano bestie ma non le vedevamo. Le guide diedero a noi quattro qualcosa da mettere sotto i denti, e un po’ di vino. Intanto fuori era iniziato a piovere e in quelle condizioni non se la sentivano di farci proseguire. Passavano le ore… noi ci accomodammo in una mangiatoia e sentivamo su di noi il fiato caldo di un asinello.
A un dato momento fu giocoforza partire, la pioggia cadeva meno violenta. Dietro le guide ci incamminammo per un ripido sentiero di montagna. Alcuni uomini che ci avevano preceduti, segnalavano con lunghi fischi che la strada era libera.
Albeggiava quando riprese a piovere con violenza, per cui ci fermammo per un paio d’ore in una baita prima di riprendere il cammino. La colonna si muoveva faticosamente, distanziati gli uni dagli altri. Nel tagliare a mezza costa per un prato piuttosto ripido, dovetti far coraggio ad un marinaio che non osava più muoversi per paura di cadere. Io ero rimasto un poco indietro con Roberto, che era sempre stato un debole camminatore, così fummo tra gli ultimi ad entrare in una specie di rifugio dove s’era riunita tutta la comitiva. In fondo al vallone si vedevano alcune case: le guide ci dissero che si trattava di Ferriere, un piccolo agglomerato di case sopra Argentera, nella Valle Stura… insomma, eravamo in Italia! Compilammo la ricevuta e ci lasciammo andare giù per la discesa, felici di essere nuovamente a casa.

Poco prima di raggiungere le abitazioni, vedemmo un uomo che camminava poco distante da noi. Gli urlammo in italiano: “Come si chiama quel paesino?”. “Je ne comprends pas”, fu la risposta. Il cuore si fermò. “Ma allora non siamo in Italia!”. No, era Francia, e quello era il paese di Bouzou.
Più tardi, in una locanda, ci trovammo tutti riuniti. Noi non avevamo che pochi spiccioli, ma per fortuna, tra gli altri compagni sconosciuti, girava ancora qualche franco, così, generosamente, fummo adottati dalla comitiva.
Dietro compenso, un montanaro ci assicurò che l’indomani mattina ci avrebbe accompagnati lui sino al confine. Ci diedero una parca cena e ci accompagnarono a dormire in un rifugio provvisto di cuccette.
Al mattino presto ci alzammo. Non pioveva più. Il confine non era lontano, stavolta eravamo veramente a casa. Giunti sul costone spartiacque, ci fermammo per un momento. Io consigliai ai miei amici di sganciarsi dal grosso dei fuggiaschi: una volta in Italia, noi eravamo in regola, nessuno poteva più arrestarci poiché la nostra classe 1925 non era mai stata chiamata sotto le armi. Non mi diedero retta ed allora, tutto solo, mi gettai verso valle il più velocemente possibile.
La pioggia del giorno prima aveva ingrossato i torrentelli che scendevano a valle e dovetti attraversarne uno a guado con l’acqua oltre il ginocchio, con la paura che la violenza della corrente mi facesse scivolare su qualche sasso viscido. Andò tutto bene salvo che per le scarpe da città, che con l’occasione si disfecero completamente. Ormai camminavo sulle calze, ma che importava? A pochi passi da me vedevo venirmi incontro le prime case di Argentera.
Da una casetta ai limiti del prato che stavo percorrendo, vidi muoversi delle persone. Con cautela mi avvicinai: era la caserma della Guardia di Finanza. I militari, che stavano preparandosi per il pranzo, mi invitarono alla loro mensa ed intanto mi dissero che al momento non c’erano tedeschi in zona, ma che io avrei fatto meglio a trovarmi al più presto un paio di scarpe perché, così conciato, avrei dato troppo nell’occhio. Poi mi chiesero dove avevo intenzione di andare. “A Boves”, dissi. “A Boves? Ma non lo sai ancora che il paese non esiste più? Giorni fa, nei paraggi, c’è stato uno scontro fra i tedeschi ed i militari della IV Armata che si ritiravano dalla Francia. Il paese si è trovato in mezzo, così è stato tutto bruciato e gli abitanti uccisi”.
Riesco a rendere l’idea di che cosa produsse in me quella notizia? Mi sentii morire, l’appetito che avevo mi passò di colpo. I finanzieri allora, rendendosi conto di essere stati troppo brutali, aggiunsero che probabilmente non tutti gli abitanti erano periti, che forse qualcuno si era salvato e tra i superstiti potevano esserci i miei genitori ed i miei fratelli. Per le scarpe mi indirizzarono dal parroco del paesino, fratello di un prete di Boves che conoscevo. Mi prestò un paio di stivaletti con l’elastico laterale (tipo classico da prete), con l’accordo che li avrei restituiti a suo fratello.
Triste e col cuore che mi tremava, mi avviai alla fermata dell’autobus che fortunatamente quel giorno faceva servizio. Era quasi vuoto, ma quando si fermò a Pietraporzio si riempì di tutti i componenti la brigata con la quale avevo attraversato il confine, e tra questi c’erano pure i miei tre amici.
A Demonte lasciammo la corriera per il tram, che allora faceva servizio per Cuneo. Qui le notizie raccolte su Boves erano già meno catastrofiche, ma l’angoscia rimaneva. A Borgo S. Dalmazzo prendemmo il treno per Boves: attorno ai vagoni giravano dei bei giovanotti alti e biondi con i calzoncini corti. Erano le SS che avevano bruciato Boves, ma noi allora non ci badammo più di tanto.
Franco, essendo figlio del capostazione di Boves, si recò negli uffici e telefonò al padre, così quando scendemmo dal treno trovammo, oltre al papà di Franco, anche la sorella di Berto la quale subito mi disse che i miei erano salvi e che la mia casa non era stata bruciata.

 

Quasi di corsa io e Mario percorremmo il chilometro dalla stazione al paese. Era giovedì 23 settembre. Le strade piene di tegole, le finestre come occhiaie vuote ed i muri anneriti testimoniavano tutto l’orrore di quanto era accaduto la domenica 19.
Arrivai a casa quasi contemporaneamente ai miei familiari, che tornavano proprio allora dalla cascina nei pressi di S. Anna, dove si erano rifugiati per sfuggire ai tedeschi. Fu un abbraccio interminabile ed io, che credevo di avere tante cose da raccontare, dovetti tacere ed ascoltare loro. Era successo di tutto ed in così poco tempo, ma grazie a Dio eravamo ancora tutti assieme. Il 1943 doveva portare altri lutti, altre disgrazie, ma questa è un’altra storia.
Noi quattro amici eravamo già a casa quando, qualche giorno dopo, arrivò anche Maurizio Agnese. Elio Brignone, invece, fu catturato e finì a lavorare in Germania.
Io ho raccontato la mia storia, ma mi piacerebbe tanto conoscere anche quelle degli altri.
Tolone aveva rappresentato per noi l’avventura, era il “porto delle nebbie”, la città dove tutto era permesso. C’era allora un intero quartiere dove da ogni porta entravi in una casa di tolleranza. Io non ero mai stato un frequentatore di certi ambienti, sia perché ero ancora illibato, sia perché non mi andava l’idea del sesso a pagamento (e comunque non avevamo molti franchi da spendere). I locali però erano accoglienti. Alcuni erano riservati ai tedeschi, altri agli italiani ed altri ai francesi. Le signorine uscivano tranquillamente per strada ed all’interno c’era un salotto con bar, dove potevi bere una birra ed intanto ascoltare una gaia orchestrina in cui non mancava mai la fisarmonica. A volte si poteva anche ballare con le ragazze e, anche se nessuno di noi è mai andato oltre, rimanevamo con l’impressione di aver vissuto una storia di cinema alla Jean Gabin.