Duccio Galimberti

Di Duccio Galimberti si sa quasi tutto: eroe nazionale, medaglia d’oro della resistenza, ucciso proditoriamente nei pressi di Centallo da un gruppo di Brigate Nere che lo stava trasferendo da Cuneo, dove era giunto dalla città della Mole per essere interrogato, a Torino, dove era stato arrestato assieme ad altri membri del CLN (Comitato Liberazione Nazionale).
Tuttavia la testimonianza del mio compagno di lotta Aldino (Aldo Zucco) che lo ha conosciuto personalmente credo valga la pena di essere raccontata. Aldino aveva lasciato la riviera ligure per partecipare alla lotta partigiana. Una menomazione congenita al braccio destro, che gli impediva di imbracciare il fucile, lo avrebbe esonerato dal servizio militare, ma questo per lui non aveva importanza vista l’educazione anti-fascista, che aveva assorbito da quello che potremmo considerare il suo patrigno, che lo spingeva all’azione. Come tutto solo sia approdato a Cuneo nel dicembre 1943 è tutta una storia da raccontare. Sta di fatto che il 12 gennaio del 1944 egli si trovava in valle Grana aggregato ai «ribelli» di Italia Libera comandati da Duccio Galimberti. Il suo distaccamento era collocato sul monte Tamone ed era comandato da Aldo Quaranta.

Da quella posizione privilegiata egli poté seguire l’attacco di un forte contingente tedesco che trasportato su tre camion si muoveva dall’abitato di Val Grana sù verso la frazione di Damiani. Poco prima avevano tentato di avvicinarsi alla base del comando partigiano situato a San Matteo, ma ne erano stati respinti dal fuoco delle mitragliatrici dei ribelli. Quel giorno si limitarono quindi a incendiare un po’ di case e a sparacchiare con armi pesanti e mortai tutto intorno. Verso le 4 del pomeriggio rimontarono sui loro mezzi e si allontanarono verso Cuneo.
Il giorno dopo, 13 gennaio, i tedeschi ripresero la loro operazione di rastrellamento. Appena la nebbia del mattino si diradò incominciarono a far piovere sulle postazioni dei partigiani, che il giorno prima avevano individuato, proiettili di ogni tipo, di cannone e di mortaio. Per non farsi uccidere sul posto venne dato l’ordine di abbandonare le posizioni e di ritirarsi verso l’alto. Fu durante questa operazione che Duccio venne ferito da alcuni colpi di machine-pistole sparategli contro da una pattuglia di tre sciatori tedeschi in tuta bianca che si erano avventurosamente infiltrati nelle posizioni partigiane senza essere avvistati. Così come erano apparsi, altrettanto velocemente scomparvero giù per il pendio innevato inutilmente inseguiti dalle raffiche degli uomini di Ettore Rosa accorsi fulmineamente. Nonostante le ferite Duccio, rifiutando ogni aiuto, continuò a salire verso la spartiacque della valle Stura e giunto sulla cresta si prodigò affinché tutti i ragazzi attorno a lui prendessero una posizione di difesa in attesa dei compagni che stavano ripiegando da San Matteo. Sulle loro teste esplodevano proiettili a frantumazione come fuochi d’artificio. Era quasi buio, quando Duccio raggiunse con una dozzina di partigiani una baita solitaria a poca distanza dal passo di Cedrose. Il casolare era quasi totalmente immerso nella neve. I primi arrivati avevano acceso all’interno un fuoco ristoratore.

Ma qui lasciamo la parola ad Aldino: «Ai lati del porticato sono piazzati due mitragliatori presso i quali vigila un partigiano. Addossati al muro ci sono dei feriti che tremano per il freddo; alcuni stanno coricati sulla paglia altri seduti; quasi tutti sono fasciati alla meno peggio con fazzoletti. Duccio, sempre appoggiato al muro, aspetta il suo turno per essere medicato. Quando tocca a lui, l’infermiere lo fa adagiare su un rustico tavolo. Una pallottola aveva perforato la coscia della gamba sinistra. Dai fori di entrata e di uscita uscivano grumi di sangue nero. Nel calcagno era rimasta incastrata una pallottola. Finita la medicazione, i comandanti presero una decisione: Duccio doveva lasciarci per essere curato in pianura. Galimberti radunò intorno a sé gli uomini e disse loro: «Rosa e gli altri ufficiali hanno deciso di mandarmi in pianura per curarmi. Se rimanessi con voi metterei solo in pericolo la mia e la vostra vita. So che il dovere di un capo è di rimanere coi suoi uomini, specialmente quando si trovano in pericolo. Ma io vi lascio in buone mani. Troverete in Ettore Rosa e Livio Bianco degli esperti comandanti che vi guideranno per la via migliore. Tenete alto il nome dell’Italia Libera; mantenetevi sempre uniti e non scoraggiatevi nei momenti più duri. Ricordatevi che siete voi i difensori della libertà del popolo italiano. Sarete divisi in due gruppi: un gruppo partirà per la valle Stura e l’altro rimarrà qui. Prima di lasciarci cantiamo ancora una volta Fratelli d’Italia.»

Due valligiani caricarono Duccio su una slitta per calare il fieno d’inverno (noi la chiamiamo brasera) e dopo averlo avvolto in una coperta lo legarono strettamente e con quel carico scesero verso Rittana. Qui, con l’aiuto del gestore di un’osteria, venne approntato un carro con un giaciglio di paglia dove venne adagiato il corpo del ferito; sopra di lui furono poste delle fascine per nasconderlo alla vista. Duccio è commosso da tutte queste attenzioni che gli sono rivolte e ricordando che quei generosi valligiani lo stanno aiutando a rischio della loro vita li ringrazia promettendo che si ricorderà di loro. Al mattino del 14 gennaio Duccio arriva a Borgo San Dalmazzo, dove viene nascosto in casa di un amico. Di lui si interessa Panfilo (Arturo Felici, tipografo) che va alla ricerca di un posto sicuro dove si possano curare le ferite. Si tratta di estrarre un proiettile ancora incastrato nell’articolazione tarso-astragalica del piede sinistro e medicare due ferite alla coscia sinistra dove ci sono fori di entrata e di uscita del proiettile. Si tenta con l’ospedale di Boves, ma i medici sono ancora sotto choc per quanto è accaduto al paese pochi giorni prima e rifiutano di ricoverarlo. Panfilo si reca allora al santuario di Madonna degli Angeli fuori Cuneo, dove c’é un ospizio per persone anziane. Ma il padre guardiano rifiuta ogni coinvolgimento. Su proposta del Dottor Grio (Mario Pellegrino) si decide di trasportare il ferito all’ospedale di Alba. Il 15 mattina, Duccio viene caricato sulla macchina del Dottor Grio che è protetta dal contrassegno «Z» che indica il medico condotto. Questo non toglie che se venisse fermato con Galimberti a bordo rischierebbe la morte.

Ecco come il dottor Pellegrino (Grio) racconta questo avventuroso viaggio: «Passando per il ponte di ferro ci dirigemmo per Boves verso Castelletto Stura in modo da evitare il posto di blocco fascista di Borgo San Giuseppe (Cn). Sul parabrezza ogni cinque-sei chilometri si formava una incrostazione di nebbia gelata che ci obbligava a fermare per grattarla via in modo da ripristinare la visibilità. Alle otto fermo la macchina a 50 metri dall’ospedale di Alba, scendo e vado a parlare con il professor Longo. Come sente il nome di Galimberti impallidisce e rifiuta categoricamente di accoglierlo. Decido allora di recarmi all’ospedale di Canale dove so che lavorano un paio di medici sfollati da Torino e che simpatizzano per la resistenza. Sono le nove del mattino, all’infermiere che ci riceve faccio il nome del professor Penati, il ferito viene ricoverato senza fare domande».
A mezzogiorno la pallottola viene estratta dal piede e le ferite della coscia medicate. Il mattino dopo viene trasferito a casa di un certo Ferrero (proprietario di una fornace). Ai primi di febbraio raggiunge Torino e trova alloggio presso la vedova Raivella, presso la quale il dottor Pellegrino aveva vissuto in pensione da studente. La signora è molto discreta, intuisce ma non fa domande. Da questo rifugio Duccio mantiene i contatti con i gruppi GL e riceve frequenti visite di amici. A metà aprile scomparirà per tre giorni per recarsi, attraverso le Alpi, a Barcellonette dove avrà un incontro con il maquis francese. A maggio si trasferisce in corso Regina Margherita dove proseguirà la sua opera di membro del CLN piemontese. Arrestato con altri membri dell’organizzazione nel novembre 1944 morirà assassinato il 3 dicembre a Tetto Croce di San Benigno di Cuneo.