La storia di Rosa

Questa testimonianza, in prima persona, è quella di Rosa Gaiaschi Pettenghi.
Pavese, fu arrestata e deportata nel 1944. Condivido con voi le sue vicende.

> Deportata a Bolzano

La sera del 20 settembre del 1944
i tedeschi ci hanno prelevato dalle carceri di San Vittore e ci hanno portato a Bolzano. Durante il viaggio in pullman ho avuto la gioia di avere vicino a me mio marito e mio figlio. Il viaggio non era né bello, né brutto, ma sempre con lo spavento, perché non si sapeva dove si andava.
Quando siamo arrivati a Bolzano, hanno diviso gli uomini dalle donne. Un reticolato divideva i due campi, così al mattino quando ci si alzava si poteva parlare con i nostri mariti, con i figli. lo parlavo spesso con mio marito e con il mio ragazzo che aveva quindici anni e mezzo ed era ancora un bambino per me. Di pavesi a Bolzano ho incontrato l’Anna Botto, Alberti, Gragnani con la moglie, Lambri, Gatti, Bertoni, Guglielmo Scapolla che era sempre insieme a mio marito e a Gragnani. Rispetto a Ravensbrück, Bolzano era il paradiso: mangiavamo due volte al giorno e discretamente: il lavoro non era pesante: io andavo ad attaccare i bottoni in una caserma di alpini. Avevamo una tuta blu con il triangolo rosso sulla manica ed il numero: il mio era il 49. Eravamo in baracche: alle nove tiravano il catenaccio, però ci si parlava attraverso un muro non troppo allo che divideva le camerate degli uomini da quelle delle donne. La Ginella chiedeva sempre a un certo Guido di cantare e lui ogni sera cantava “Buona notte mamma”; non era un canto allegro e ci faceva piangere spesso.

Ricordo uno che aveva cercato di scappare. L’hanno ripreso, l’hanno picchiato a sangue. Poi abbiamo saputo che, il giorno prima del nostro arrivo, ne avevano fucilati diversi su un monte vicino.
Le mestruazioni le hanno tolte subito. Da Bolzano io non le avevo già più, non so cosa mettessero nel mangiare: nessuna aveva più le mestruazioni. In un primo momento non ci si rendeva conto: “Chissà perché, forse la denutrizione, forse dopo... “. E invece poi abbiamo saputo: a Ravensbrück la Livia Rossi era addetta alle cucine e vedeva che mettevano una polvere nelle caldaie dove facevano la zuppa. Era riuscita ad averne un po’; diceva che voleva farla analizzare, ma poi si è spaventata e l’ha buttata via.
Il capo campo. Hans, era tedesco; l’ultima sera è venuto dentro urlando quando si stava già dormendo: una gli ha detto: “Va all’inferno, Hans”. E lui ha risposto: “Domani mattina andate tutte voi all’inferno’” E difatti, all’indomani mattina, siamo partite per l’inferno. Alla partenza ci hanno ridato i vestiti e i soldi che avevano ritirato. Noi ci aspettavamo che ci mandassero a lavorare e lasciassero unite le famiglie. Invece, caricandoci sui carri bestiame, hanno diviso gli uomini dalle donne.

> Arrivo all’inferno

A Innsbruck il treno si è fermato per staccare i vagoni degli uomini. Mi sono sentita terrorizzata: senza pensare a quello che mi poteva succedere. Sono saltata dal vagone con la Luisa Canera e sono corsa lungo il convoglio degli uomini, chiamando a gran voce i miei cari. Ho potuto salutarli e mandare un bacio. Poi i soldati mi hanno ricacciata a forza nel vagone.
Le condizioni sul vagone erano terribili: chiuse ermeticamente, al buio, stipate.
Eravamo disperate. L’unica che cercava di farci coraggio era la Paganini. Povera vecchietta, che era insieme alle due figlie. Bice e Bianca: “Vedrete che poi non è così brutto come lo dipingono il demonio. torneremo a casa presto, la guerra sta per finire: sarà questione di un mese o due”. Il viaggio è durato cinque giorni; qualche volta ci distribuivano un pezzetto di pane: quando si fermava il treno, ci lasciavano scendere a bere alle fontanelle delle stazioni. I nostri bisogni li facevamo sul vagone: avevamo fatto un buco nel vagone e a turno...
Quando ci hanno fatto scendere a Ravensbrück alcune del nostro vagone erano già morte.
Pensavamo che ci portassero a lavorare, ma non immaginavamo certo di trovare quello che abbiamo trovato. Quando siamo arrivate nel campo abbiamo visto delle belle casettine; credevamo che fossero i nostri alloggi, invece, erano le abitazioni delle SS. Poi, quando ci hanno portato nel campo grande e abbiamo visto le nostre è stato un disastro! La Topolino, una sposina di Torino, mi dice:
“Guarda là. Rosa, guarda là quante belle patate”. “Meno male, almeno si mangia”. Dopo un po’ vediamo caricare le patate: erano tutte donne morte! In lontananza sembrava un mucchio di patate: alcune deportate le prendevano, le buttavano sul carro, le portavano ai forni crematori. Vedevamo uscire qualche deportata dalle baracche: ci sembrava di vedere degli scheletri vestiti. Venivano vicino: “Dai, dai’’. Cercavano di farsi dare qualcosa: ma quel poco che c’era l’avevamo consumato fra noi.
Siamo arrivate che era pomeriggio tardi: siamo state nel locale delle docce, tutta la notte in attesa: poi al mattino ci siamo spogliate, abbiamo dovuto fare il fagottino della nostra roba e metterla nel mucchio. Il locale delle docce era uno stanzone con delle canne che venivano giù. Ma serviva anche come camera a gas: quando mandavano a gassare le persone, le facevano passare sempre attraverso le docce di modo ché chi entrava li non sapeva se entrava per la doccia o per...

Ci hanno fatto le docce e poi ci hanno dato degli abiti: era una cosa ridicola, in un primo momento veniva voglia di ridere: chi magari aveva una camicetta stretta stretta, che non riusciva ad allacciarla, un’altra un vestito largo... lo avevo una gonna grigia tutta stracciata e una camicetta senza maniche marrone, di cotone. Poi ci hanno dato gli zoccoli olandesi. Gli abiti erano sporchi: così come li toglievano ai morti, alle morte li davano a noi. Per tutto il tempo che sono stata a Ravensbrück ho sempre portato quei vestiti, con una X dipinta dietro, perché così se uno scappava, lo si vedeva da lontano.
Non avevo mutande. Qualcuno riusciva a rubare magari nel mucchio qualcosa e se lo metteva addosso, ma io non ho potuto prender niente. Facevano il mercato nero, ma bisognava avere qualcosa da dare in cambio: io non avevo niente.
Dopo la doccia ci hanno radunato nel cortile: noi eravamo sempre spaventate per quel carro di donne morte che avevamo visto. Una francese passando ci ha detto: “Non prendetevela: c’è il tifo nel campo! Duecento al giorno circa muoiono così!”, Poi ci hanno portato nelle baracche: io sono andata alla 17. Eravamo in più di 50; per dormire c’erano i castelli: in ogni spazio potevano starci al massimo due persone, ma eravamo in quattro o cinque una addosso all’altra: io ero con due russe e una polacca e non capivo una parola di quello che dicevano.
Su ogni lettuccio c’era solo un po’ di paglia; al mattino, bisognava stendere la coperta su questa paglia e guai se faceva una piega. Una coperta doveva bastare per tutte. Poi, al mattino, ci davano un altro straccio di coperta e ce lo mettevamo in spalla per andare al lavoro, Responsabile della baracca era una prigioniera politica francese, Jumpa: non era né buona, né cattiva, non faceva differenze.

Quasi tutte le italiane che sono partite con me da Bolzano erano un po’ in questa baracca, un po’ in quella vicina, comunicante. Con me c’erano Livia Rossi, Maria Rossi, Maria Ravera, Ginetta Portalupi, Giorgina Bellak di Milano, Maria Sillini di Genova, la contessa Gonzati, la contessa Valdameri, tutte triangolo rosso. L’Anna Botto l’avevano messa nella baracca vicina, però ci si vedeva tutte le mattine andando a lavarsi: i gabinetti erano in comune, cinque o sei gabinetti per più di cento persone: bisognava stare attente a fare in fretta, non sempre si riusciva a lavarsi o a fare quello che si doveva. Quando siamo arrivate in baracca, noi le abbiamo prese perché dovevamo occupare il posto: per esempio, nella mia cuccia erano in tre, sono arrivata io, han dovuto far posto anche per me: allora son stati calci, pugni, perché in quel momento si diventa peggio delle bestie; ci si strappava quel pezzettino di posto come chissà che cosa.
Come primo vitto, ci hanno dato una ‘miska’, una scodella con delle bucce di patate, di barbabietole e una broda rossa, rossa che faceva schifo, lo non l’ho mangiata, ma poi ho dovuto abituarmi.
Quella notte ero tanto stanca: anche se ogni tanto mi trovavo un piede sotto il naso, ogni tanto un calcio, la gran stanchezza mi ha fatto dormire. Al mattino alle quattro è suonata l’adunata, siamo andate fuori e poi ci hanno rimandato dentro perché ci hanno fatto fare una giornata di riposo. All’appello ci mettevano tutte in fila, poi passava la SS, ci contava, guardava i numeri: ormai noi dovevamo dimenticare di avere avuto un nome. Ci hanno portato via tutto quello che possedevamo, persino le forcine dei capelli. La SS, con l’interprete al fianco, ci ha detto: “Da questo momento dovete ricordarvi che non siete più persone, siete numeri; il vostro compito è di ubbidire, lavorare e basta, Non protestate, non litigate fra voi perché sarebbe peggio per voi”.

▶︎ Continua a leggere “La storia di Rosa” - seconda parte