La storia di Aristene

Tempo fa, frugando fra le mie vecchie carte, mi sono capitati fra le mani i ritagli di un giornale argentino che anni fa mi erano stati inviati dalle cugine americane. Si tratta di stampa locale della città di Salta il cui titolo é “L’intransigente”. Su questo numero ampio spazio viene dedicato alla pubblicazione delle memorie di mio zio Aristene, fratello maggiore di mio papà che ancora ventenne era emigrato in Argentina. Per il contesto storico dei fatti da lui narrati penso possa essere interessante riportarne alcuni frammenti. Aristene (che ora è citato da Wikipedia) nacque a Pergola in provincia di Pesaro il 25 novembre 1877, primo di nove figli che mio nonno Pietro ebbe con Giulia Rapanotti. Ed ecco cosa scrive dell’origine della famiglia: “I miei avi sono oriundi della Toscana e precisamente di Prato dove esercitavano la professione di ceramisti. Emigrarono intorno alla metà del 600 nelle Marche e con il tempo si dedicarono all’agricoltura. A parere dei nonni pare fossero parecchi fratelli che si trasferirono in una località vicino a Pergola chiamata “La Pera”. Nel ricordo degli anziani questo successe quando Napoleone conquistò l’Italia e obbligò molti giovani ad arruolarsi nell’esercito. Pare che anche un Papi dovette subire questa sorte insieme ad altri compaesani.”

Si racconta che durante la battaglia di Austerlitz una pallottola bucò il kepì di un mio antenato. Stanchi della vita militare e di rischiare la vita, un gruppo di italiani decise di disertare e cercare un modo per rientrare in patria. Dopo molto cammino e sofferenza giunsero in un piccolo villaggio dove si fermarono a riposare. Un uomo si offrì di far loro da guida così ripresero il cammino. Dopo aver molto marciato si accorsero dalla posizione del sole che la guida li stava riportando dove erano le truppe napoleoniche. Capito che l’uomo stava facendo il doppio gioco lo abbandonarono al suo destino e ripresero la giusta via verso casa. Secondo il racconto dei miei familiari in quel tempo la campagna era piena di malavitosi ed essendo l’Italia ancora molto divisa era difficile dar loro la caccia. Per porre rimedio a questo stato di caos, le autorità pontifice decisero di utilizzare dei soldati polacchi che li erano giunti al seguito di Napoleone, per ristabilire l’ordine pubblico. Un giorno alcuni di questi soldati si recarono al casolare di una giovane contadina che teneva in braccio un pargoletto. I polacchi interrogavano la povera donna, la quale non capendo la loro lingua non seppe cosa rispondere. Allora chiamò il marito che in quel momento si trovava su un albero intento a raccogliere fogliame per dar da mangiare alle bestie. I soldati si recarono subito verso l’uomo e come questo cercò di contrastarli i soldati aprirono il fuoco su di lui uccidendolo. Poco tempo dopo la moglie si trasferì con il figlio nella cittadina di Pergola dove trovò lavoro come persone di servizio da un calzolaio di nome Modesto.

L’uomo ucciso dai polacchi era mio nonno Giambattista Papi. Il ragazzo che crebbe nella casa del calzolaio imparandone il mestiere fu mio padre Pietro Papi che a 17 anni si unì alla schiera dei Garibaldini che combatterono nella battaglia della Bezzecca. Era l’anno 1866. A guerra finita l’esercito garibaldino venne sciolto così mio padre tornò a casa. Intanto il re Vittorio Emanuele II compiva il disegno di riunire l’Italia. Il 20 settembre 1870 dopo la presa di Roma venne proclamato il regno d’Italia. Una volta completata l’opera iniziò la chiamata alle armi dei giovani di leva. In quei tempi chi era ricco poteva pagando una somma alla stato farsi sostituire da un altro che dietro congruo compenso facesse il servizio militare in vece sua. Mio padre accettò di sostituire uno di quei ricchi e così finì nuovamente sotto le armi. Fu inquadrato nel 20° reggimento bersaglieri e vi rimase per ben quattro anni. Finito il contratto militare Pietro ritornò a casa e dopo poco si sposò con mia madre Giulia Rapanotti e con lei ebbe ben nove figli: Artistene (che sono io), Cesira, Edmonda, Vladimira, i gemelli Amelia e Giuseppe (padre dell’autore di questo scritto), Domenico, Giovannino e Armando. Quando ebbi occasione di recarmi alla Pergola per una visita ai miei parenti rimasi stupito di quanto fosse piccola la casa abitata dai miei nonni, un’ampia cucina al pianterreno doveva pure servire da laboratorio da calzolaio, una ripida scala portava al piano superiore che era formato da due sole camere. Mi domando come avevano fatto a sistemare una figliolanza così numerosa.

Mio zio Aristene era nato ben tredici anni prima di mio padre Giuseppe, che praticamente non ha nessun ricordo di lui. Questo è dovuto al fatto che praticamente vissero pochissimo sotto lo stesso tetto. Aristene aveva frequentato le scuole elementari fino alla quarta dimostrando poca volontà di studiare così che il padre lo tenne a casa per iniziarlo al suo mestiere di calzolaio. Il nonno Pietro era proprietario di una calzoleria che dava lavoro a vari lavoranti. La sorte di zio Aristene cambiò quando, ma le leggiamo le sue parole: “Era un giorno freddo e piovoso. Trovandomi in casa senza far niente, tirai giù dalla parete un quadro della Vergine addolorata e provai a riprodurla disegnandola sulla stessa parete. Fui soddisfatto dalla somiglianza che avevo ottenuto così che da quel momento non smisi più di disegnare tutto quello che mi capitava sotto mano. Questi disegni sulla parete attirarono l’attenzione dei clienti. Un giorno un professore della scuola tecnica della mia città li notò e consigliò a mio padre di farmi studiare disegno. Non essendoci una tale scuola in città si offrì lui stesso di farmi da insegnante e fu così che incominciai a dipingere sul serio. Il professore si chiamava Gino Ginevri e studiai con lui per tutto un anno. Arrivate le vacanze il professore dovendo assentarsi lasciò il suo laboratorio a me e ad altri allievi che provenivano dalla scuola delle Belle Arti di Urbino che si preparavano a superare un concorso per diventare insegnanti di disegno. Erano tutti molto impegnati, ma amabili compagni, lavoratori instancabili. Ricordo i nomi di due di loro: Archimede Santi e Paris Parisio. Con loro imparai moltissimo.

In quel tempo i partiti politici facevano molta propaganda in modo particolare i socialisti e i repubblicani i quali decisero di fondersi fra loro dandosi un indirizzo più culturale che politico. Fu così che venne aperto un circolo con una sala di riunioni dove si svolgevano dibattiti e si aveva a disposizione una biblioteca. Mio zio frequentò uno di tali circoli ma non essendo molto zelante ne fu cacciato. In quei giorni sua madre (mia nonna Giulia) si trovava a Roma in occasione della festa del compleanno del principe, futuro re, Vittorio Emanuela III (novembre 1869). Da Roma scrisse alla zio di raggiungerla perché gli aveva trovato un’occupazione presso un monsignore, un certo Gianni Capralli, un prelato di età avanzata e di carattere molto irascibile. I primi tempi furono molto amari per il giovane Aristene perché vedeva così svanire i suoi sogni di continuare a studiare disegno come era nei suoi progetti. Passarono molti mesi e finalmente monsignore gli comunicò che avrebbe potuto riprendere i suoi studi. Iniziò a frequentare una buona scuola ma che prevedeva una durata di corso di studi di otto anni, cosa che lui non poteva permettersi. Aveva bisogno di un insegnamento rapido che lo mettesse subito in grado di lavorare.

Un giorno passeggiando per le strade di Roma vide un manifesto con il quale il museo artistico industriale bandiva un concorso per alunni. Fece domanda e venne accolto. Si trattava di una scuola a carattere superiore alla quale non era abbastanza preparato. Mentre frequentava la scuola lavorava come apprendista dal pittore Augusto Braggi, un buon decoratore ma piuttosto sfaticato che approfittava dei suoi apprendisti. Ed ecco cosa dice lo zio Aristene: “Fu un anno di penuria, la mancanza di entrate mi obbligava ad immensi sacrifici. Sotto la direzione del Braggi abbiamo fatto parecchi lavori in Roma, la decorazione della sagrestia nella chiesa di San Carlo, la decorazione di porta Pia e altre ancora”. Scontento di come veniva trattato dal suo datore di lavoro decise di mettersi per conto suo, in società con un compagno. Un giorno gli arriva la notizia che un prete americano va cercando un maestro di pittura da impiegare come professore in un’opera da lui fondata e diretta. Si presenta e ottiene un ingaggio per quattro anni ed un biglietto di viaggio per l’Argentina destinazione ultima la città di Salta.

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